Volantino firmato “i compagni consiliari”, Torino 31 maggio 1971.
Versione a colori
I PROLETARI VOGLIONO IL COMUNISMO SUBITO!
Sabato è stato un giorno di festa proletaria. Per diverse ore abbiamo attaccato la realtà di merda che tutti (capitale, burocrati e falsi rivoluzionari) vorrebbero imporci. Il solito corteo del sabato pomeriggio è stato stravolto dall’intolleranza di un migliaio di proletari che si sono posti nella linea di lotta rivoluzionaria che da tempo si sta aggirando per il mondo e che come Detroit Stettino e Reggio insegnano, non dimostra il minimo rispetto per gli schemi ‟civili e democratici” imposti dal capitale ed accettati dagli pseudo‟comunisti”. Il proletariato crea nei momenti più alti delle sue lotte delle forme di autogestione comunista che indicano come la distruzione di tutto il vecchio mondo per la realizzazione del comunismo passa attraverso la violenza collettiva, il gioco della devastazione liberatoria e la rivoluzione nella propria vita quotidiana.
I proletari non vogliono riforme ma l’abolizione del lavoro.
I proletari non vogliono tutto (merda compresa) ma il meglio assoluto.
i compagni consiliari
cicl. in proprio
Torino 31.5.71
(la sede non è indicata per evitare devastazioni dei carabinieri)
DIDASCALIA IMMAGINE:
IL VOLTO OSCENO E GHIGNANTE DEL PROLETARIATO DISTRUGGE CON IL SUO APPARIRE IL MONDO MARCIO DELLA IDEOLOGIA
‟Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria” (K. Marx, Il Capitale)
SUL RETRO: IL CAPITALE SGUINZAGLIA I SUOI CANI DA GUARDIA: LA STAMPA – IL P.C.I. – I SINDACATI E TUTTI GLI SCIACALLI CHIEDONO LA REPRESSIONE VIOLENTA DELLA FELICITÀ IN ARMI
7 MAGGIO un giorno qualunque LA SCUOLA NON SI FREQUENTA MA SI ABOLISCE
APPELLO ALLA LATENZA RIVOLUZIONARIA DEI GIOVANI AFFINCHÉ, ROTTI I CEPPI CHE ANCORA LI TENGONO AVVINTI ALLA MISERIA DELLA SOPRAVVIVENZA, INAUGURINO LA GIOIA COLLETTIVA NELLA DISTRUZIONE DELLA MODERNA SOCIETÀ AL FINE DI APPROPRIARSI DELLA VITA.
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Appare chiaro a tutti che l’individuazione del nemico è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché ciascuno prenda coscienza dei propri compiti e quindi inizi a lottare.
Gli studenti, nella storia di questi ultimi anni di lotte, hanno individuato vari nemici, volta a volta con discreta lucidità o con cecità ideologico-corporativa assai grave.
Tuttavia, per lo più, non si sono resi conto che il primo nemico da battere è dato da LORO STESSI, dalla grossa parte di miseria che ancora li pervade e rende schiavi supini della sopravvivenza imposta, se non idolatri dell’adulterato mondo di quei fottuti storici che essi considerano adulti.
Gli studenti (cioè tutti coloro che accettano il proprio ruolo sociologico datogli dall’andare in una scuola) sono in pratica i complici dell’OPPRESSIONE QUOTIDIANA che viene perpetrata nei loro confronti.
Costoro, merci da raffinare per essere immesse nel mercato del consumo di ideologia e di consenso, subiscono passivamente anni di sudditanza famigliare (il ricatto affettivo impedisce loro di vedere l’identità tra il poliziotto ed il padre sempre pronto ad adottare i metodi tipici delle polizie di tutto il mondo ogni volta che le cose non vanno come vuole lui, cioè ogni volta che il figlio non si presenta come capitale variabile nell’accumulazione accelerata di “riconoscenza famigliare”).
Costoro, del pari, sono incasellati sin dall’infanzia in quegli schemi di repressione sessuale che li accompagneranno per tutta la loro esistenza e che essi stessi dovranno aver ben cura di riprodurre (la sessualità orale ed anale che fino all’età prescolare si manifestava libera ed aggressiva, castrata con l’inizio delle scuole, si ripresenta in squallide pratiche ideologizzate dalle quali il piacere è bandito e che sono il tremulo fantasma della reale espressione dell’attività genitale di individui liberi).
Costoro infine, per ottenere la dignità dell’esser VISTI e cioè USATI nella società, sono costretti a percorrere un iter scolastico aberrante che significa la peggiore DEFORMAZIONE degli individui messa in atto da quegli infelici sbirri che sono i professori (e lo sono tutti coloro che accettano il ruolo sociale di “insegnante”). Tutta questa merda da ingoiare sorridendo serve loro come PREPARAZIONE per inghiottire di buon grado lo stronzo più grosso che gli viene approntato: l’ergastolo del LAVORO.
Ma la complicità degli studenti con l’oppressione che subiscono (e che subiranno sempre più nella misura in cui diventeranno UOMINI, cioè, per la società del capitale, delle MERCI utilizzabili per il loro valoro di scambio) risulta del tutto evidente quando, allorché genuini sentimenti di rivolta nascono dall’insopportabilità della loro condizione, non sanno far di meglio che affidarsi ad altri infelici loro pari – i cosiddetti parlamentariextra che, da allievi un po’ somari, non sanno far di meglio che sognare di prendere il posto dei loro padroni-professori per cui Mao, espressione della massima concentrazione di spettacolo burocratico, è l’oggetto delle loro eiaculazioni penose –. In questo modo essi pongono se stessi NON come soggetti una RIVOLTA GENERALIZZATA ma come, e nuovamente, MERCI nel mercato della CONTESTAZIONE. E il poter urlare nelle strade slogans a dir poco raccapriccianti è il loro unico modo per sentirsi vivi, mentre sono dei FANTASMI.
È ORA DI AVERNE LE PALLE PIENE DI TUTTO CIÒ.
È ORA CHE GLI STUDENTI, NEGANDOSI COME TALI (E CIOÈ AFFERMANDOSI COME PERSONE, COME PROLETARI RABBIOSI) IMPONGANO LOTTE CHE ABBIANO PER FINE LA FELICITÀ COLLETTIVA ATTRAVERSO LA DISTRUZIONE DELLE STRUTTURE REPRESSIVE (scuola, famiglia etc.).
L’INTOLLERANZA È FONDAMENTALE PER LA VITA.
Scritto di 5 pagine a opera di Valerio Bertello e Pier Franco Ghisleni.
«L’Organizzazione Consiliare era ormai dissolta e i due firmatari elaborarono questo estroso progetto editoriale nel dicembre 1971, durante una vacanza con le rispettive consorti a Bosia, paesetto delle Langhe, ospiti del Rifornimento Pance Vuote, locanda di Cesare, un emigrato nella Parigi degli anni Trenta, poi rimpatriato. Il dattiloscritto fu ciclostilato e diffuso, con le poste di Stato, in alcune decine di esemplari. Il progetto editoriale non ebbe attuazione.» (Pier Franco Ghisleni)
A.A.A. CERCASI LETTERATI,
INDISCUSSA FEDE PROLETARIA, QUINQUENNALE ESPERIENZA NON MILITANTE,
POSSIBILMENTE LOGORATI IN PRATICHE GRUPPUSCOLARI, ATTUALMENTE IN PREDA A
PROFONDA DISPERAZIONE, REFERENZE POLIZIESCHE CONTROLLABILI, FAMA DI PROVOCATORE
GRADITA, PER LA STESURA DI SCRITTI CONCERNENTI I MOMENTI NODALI DELLA VITA
QUOTIDIANA. INVIARE CURRICULUM PENALE.
a) Necessità dell’operazione.
1) Di ordine “politico”.
I rackets politici, in assenze di
lotte popolar-operaie rilevanti tentano oggi di trarre nuovo ossigeno dall’aggressione
di temi nuovi e tradizionalmente trascurati dall’operaismo e dal populismo. Molti
nuovi fronti di lotta sono stati aperti negli ultimi anni e molti stanno per
essere aperti. Il fronte leninista operai-soldati-contadini è stato dilatato
con l’inclusione di nuovi ceti ed esso comprende ora studenti, detenuti, sottoproletari,
hippies, donne, omosessuali, liberi professionisti, artisti, etc. Di alcuni di
questi ceti offertici dalla sociologia la cooptazione a fini frontisti è già avvenuta,
di altri se ne stanno mettendo in piedi le condizioni. L’America ha già offerto
un’anticipazione e colà il raggruppamento tradizionalmente più “politico” – il Black
Panther Party – ed il movimento underground si presentano come i due aspetti di
uno stesso fronte. Lo scimmiottamento dell’involuzione americana sta conducendo
in Italia alla farsa del tentativo di connubio fra la politica e l’underground.
Ciò potrà avvenire con diverse modalità. La meccanica più prevedibile è quella
che, muovendo dalla costituzione in partito unitario di alcuni gruppi ora
separati (L.C., P.O., il Manifesto) e dalla costituzione dell’underground in
partito informale (sull’esempio di Jerry Rubin), condurrà ad una conciliazione
ulteriore in un assembramento più vasto e più potente. Insomma dal connubio fra
politica ed underground si giungerà alla colonizzazione definitiva della vita
quotidiana. Ogni dialettica in tale operazione resterà bandita. Essa avverrà tramite
conciliazioni ulteriori ed al di fuori di ogni antagonismo, se non formale.
La vita quotidiana quindi, quella
tradizionalmente negletta dalla politica, verrà messa a sacco ed ingabbiata a
fini politici. La vita militante, quella tradizionalmente negletta dall’underground,
verrà stemperata come ruolo ripristinando vecchie lagne esistenziali.
Le riviste dell’erigenda nuova
sinistra già oggi incominciano a toccare i temi della vita biologica e sensoriale. Quelle politiche ascrivono l’infelicità
biologica e sensoriale ai rapporti di produzione eterorepressivi nei confronti
del proletario. Quelle underground la ascrivono all’”essere pig”, una specie di
vocazione autoimposta all’infelicità. Ma, tolta la testata, il lettore non
riesce più a distinguere concettualmente “Lotta Continua” da “Re Nudo”.
La nuova sinistra di cui si
scorgono i primi vagiti non sarà altro che il calderone dei ceti oppressi: le
donne rivendicheranno il loro donnismo, i
pederasti la loro emancipazione pederastica, gli hippies il fatto di
avere un udito per ascoltare musica, i drogati la necessità di avere la loro
fiala quotidiana etc.
Tutte queste minoranze verranno
sincreticamente congiunte sotto l’egida della nuova sinistra. Nessun contributo
verrà loro dato per emanciparsi dal minoritarismo se non un’indicazione vaga a
fare ricorso alla politica per perpetuare il proprio racket e permettergli
quindi di operare alla
luce del sole.
Un’operazione del genere va
sventata e certe acquisizioni teoriche ci permetteranno di giocare in
contropiede. Non bisogna più commettere l’errore in cui si è incorsi a
proposito degli ammutinamenti carcerari lasciando ai recuperatori il diritto di
menzogna (eccetto un brevissimo articolo sull’I.S. italiana, sull’argomento non
è comparso null’altro se non volgari menzogne ed oggi qualsiasi rettifica
sarebbe meno efficace che nel ’69.
Il ciclo biologico e sensoriale
dell’individuo, per ora oggetto di studi da parte della sociologia accademica e
specializzata, sta per essere invaso dallo sociobiologia politica e
sloganistica. Nessuno è caduto nella prima trappola, saranno in molti a cadere
nella seconda. Molti “rivoluzionari” ci lasceranno le penne. A meno che non si
riesca a sventare in anticipo la manovra.
2) Come
esigenza di chiarezza individuale.
Non si può più sopportare che certi temi
vengano eternamente messi in disparte con faciloneria o pascendosi in
formulazioni risolutorie precedentemente raggiunte, o facendo appello alle
leggi ineluttabili della natura, o rimandandoli al momento intimo ed
esistenziale dell’individuo, o spostando la loro soluzione alla fase del “comunismo
pienamente realizzato”.
Coloro che hanno alle proprie
spalle un curriculum “politico”, anche quando sono riusciti a realizzare la
critica concettuale della politica, esitano per lo più a passare alla critica
pratica. Passano dalla “disfatta della politica” alla “politica della disfatta”.
Tendono a ridursi al silenzio ed a ripetere la banalità quotidiana. Ciò perché
la critica della vita quotidiana non è stata ancora intrapresa, rimandandola al
futuro o relegandola nell’intimità. In alcuni l’esigenza di soluzione di alcuni
momenti della vita biologica e sensoriale è bensì presente, ma questa esigenza resta
sopraffatta dalla banalità quotidiana, perché essa non viene collegata al
momento della comunicazione. Certe esigenze esplosive restano insolute perché,
per quanto comunicabili, non riescono mai a diventare comunicate. Allora c’è
addirittura da dubitare se siano davvero comunicabili.
Per questo diciamo che l’esigenza
di comunicare queste tematiche non è un fatto libresco. Nessuna soluzione o
dissoluzione delle stesse sortirà da uno sforzo individuale anche se la proposta
della problematica lo è. L’operazione mira quindi a costituire un insieme di individui
che congiuntamente pongano in atto la critica della vita biologica-sensoriale e
non la isteriliscano nella propria individualità, dilatandola invece nella
comunicazione. Un “laboratorio” senza fissa dimora cui partecipino quanti reputino
invivibile oltre a quanto è stato finora dichiarato dalla tradizione
rivoluzionaria anche l’alienazione naturale presente, nonostante essa non la si
possa apparentemente ascrivere ad una causa sociale. Insomma l’intento è quello
di mettere sul tavolo tutte quelle ragioni di infelicità che paiono
ineluttabili e che solo un credente può sperare di vedere risolte dalla “rivoluzione”.
Ciò condurrà – è prevedibile fin d’ora – alla frantumazione del feticcio
rivoluzionario (in qualunque sfumatura verniciato) ed alla introiezione della
rivoluzione (quella oggettiva, esterna) nell’individuo, risolvendosi nella sua
condotta. Il sostrato teorico è dato dalla critica di tutti i dualismi e
dell’ingabbiamento del mondo da loro operato, e la riproposta degli stessi
quali antagonismi di una stessa
dialettica. Alcuni esempi: operai-capitale, lavoratori-refrattari al lavoro,
interno-esterno, bene-male, pensiero-azione, desiderato-vissuto, Dio-uomo, uomo-donna,
ragione-istinto, etc.
Ed infine, in parole povere ,
ci si è accorti che le contraddizioni più dolorose in alcuni di noi non legati
a ruoli sociali cronici, né particolarmente opprimenti erano proprio quelle considerate
naturali ed ineluttabili: l’infelicità procurata dal sesso, la condanna sociale dei brutti, la paura
della morte, il dolore della malattia, l’estraneità rispetto al regno vegetale,
animale e cosale, il ruolo di vecchio, di bambino, di maschio, di femmina etc.
Specialmente per questo vogliamo prendere la parola su queste questioni e non
da soli.
b) In che modo l’operazione può non cadere nella
politica.
Non è possibile oggi esprimere altro che il grado
di dilatazione del nostro io in via di ricostruzione: esso è l’indice più
sensibile del costituirsi del proletariato in classe. Ciò che è possibile a noi
stessi è possibile ad ogni altro, ma non è vero il contrario: può accadere di
dover constatare un nostro ritardo in ogni momento accertabile. Tale grado di
dilatazione si manifesta in ogni realtà vissuta e quindi con modalità diverse,
ma la condotta, quella sì, rimane unitaria. Queste realtà vissute esprimono
apprezzamento verso noi stessi – e quindi una spinta verso
una vita sempre tesa in direzione del meglio assoluto – ed intolleranza verso il
sistema, sistematico organizzatore della morte quotidiana.
Nel momento in cui abbiamo deciso di esprimerci
con la carta stampata, non per questo la nostra condotta varierà, né il tramite
divulgativo potrà essere scisso, pur nella sua particolarità, dalla condotta. La forma
letteraria di queste realtà vissute impedirà che queste siano distinte da ogni
altra nostra forma di espressione: anzi si
illumineranno reciprocamente. Questo affinché l’iniziativa non divenga soltanto un’impresa
editoriale e la nostra vita quotidiana un’espressione
vitalistica.
Se è vero che la linea di classe passa all’interno dei singoli
individui e che il conflitto generale fra vita e non vita è introiettato da ognuno, il punto di partenza per una corretta impostazione è questo: dobbiamo
essere i narratori della parte proletaria di noi stessi. Il che è ben diverso sia dal vecchio populismo russo che
da quello moderno alla Balestrini.
In secondo luogo è necessario far
cadere la barriera fra l’individuo ed il mondo esterno, quello dei fatti, se
non si vuole recuperare un’astratta “dignità ed unicità dell’individuo”, né
collezionare fatti a noi estranei in quanto li si
coglie come fatti che non ci riguardano. Evitare questi rischi significa
soprattutto evitare di vivere in un armadio.
Ciò impedirà principalmente che la “forma letteraria” della nostra vita reale
stampata sia principalmente il saggio erudito, cioè un tentativo sempre frustrato di fissare uomini e cose in uno schema definitivo e definente, e pertanto fittizio.
Poiché la dialettica rivoluzionaria ha luogo
quando la vita si immette nel sociale e la socialità nella vita, il nostro
intento è quello di esprimere tale evidenza, mentre il
saggio analitico-dimostrativo servirebbe soltanto a dimostrare i nostri ritardi.
Ma questo ritardo lo si può avvertire anche in altri modi quando viene adottato
il tono o la forma persuasiva, o esortativa, o
perentoria, o irosa, o sloganistica, o descrittiva, o comunque noiosa, oscura,
involuta. Le persone colpevoli di ciò andranno poste di fronte alle loro
responsabilità col rigore di sempre.
Infatti questi moduli espressivi sono tipici della
letteratura e della tradizione politica e rispecchiano gravi carenze e spesso
palesi tradimenti. In breve, quelle descritte sono le
formule del modulo di espressione della politica specialistica (politica = arte
del possibile = arte di porre limiti agli individui con l’arma, se possibile,
della parola); ciò va evitato tenendo presente che il nostro
fine è quello opposto: evidenziare che non esistono
limiti alla crescita qualitativa della vita.
Come indicazione generica sarà bene che la parola
scritta non sia diversa da quella parlata e vissuta e che quindi il
“genere letterario” sia analogo ad alcuni classici come il dialogato,
il monologo teatrale, l’epistolario, la biografia, ed altri modi espressivi come
l’articolo giornalistico, il diario, l’invettiva, il prontuario ed altri da
inventare.
È però necessario comprendere che non è possibile fare
l’esatto opposto di ciò che si è fatto finora per ottenere risultati diversi. Infatti non
sarebbe possibile ottenere buoni risultati rovesciando l’astratta
obiettività ed il realismo del saggio, per poi adottare uno stile
delirante ed onirico; ciò è avvenuto in passato ed ha scardinato il
razionalismo della politica il che ci permette oggi l’acquisizione di un
livello superiore di comprensione.
Quanto detto è ancora
insufficiente per definire uno stile di espressione adeguato ai temi vitali che
ci proponiamo di trattare, ma una chiara consapevolezza di ciò che occorre
evitare potrà esserci di valido orientamento.
Da tenere presente inoltre che uno
“stile” che non svilisca i “contenuti” potrà essere
adottato solo se i contenuti sono per noi veramente vitali. Se ciò non è vero nessuna
analisi potrà indicarci qual è la strada migliore.
I temi che la visione
materialistico-volgare della politica ha trascurato sono ad esempio la nascita,
la morte, la natura, il sesso, la vecchiaia, la malattia e la deformazione, il
sonno e la veglia, il tempo, lo spazio e molti altri.
Tali temi sono stati campo
incontrastato dei tromboni della cultura accademica, mentre i politici amanti
della pratica hanno sempre disdegnato di curarsene senza avvedersi che oggi il
momento naturale e quello sociale dell’alienazione non sono più distinguibili
essendosi materializzati negli individui; per cui gli scrittori politici hanno
sempre rivolto la loro attenzione a temi più “concreti” (salario, sfruttamento,
lotta di classe, etc.) e più comprensibili al popolo.
Ora però che il capitale si è fatto uomo e
natura investendo la sfera del biologico, non è più possibile se non per conclamata malafede trascurare
tali soggetti.
Ciò in quanto, tra l’altro, il ricatto del
capitale sugli individui è fondato sulle soluzioni che esso fornisce ai
problemi di ordine biologico-sensoriale, soluzione che non è altro che la “produzione
della vita”, accompagnata dalla divulgazione di
modelli di comportamento e dalla falsa credenza che tali soluzioni siano le
migliori e le uniche possibili.
Altri temi sono già stati trattati ampiamente dalla
letteratura di sinistra, da un punto di vista parziale per lo più politico od
economistico; essi andranno nuovamente affrontati con un taglio che li leghi
unitariamente ai precedenti fornendo una soluzione praticabile subito
individualmente e collettivamente. Tali soggetti sono: il matrimonio, i figli, il
lavoro, la violenza, le istituzioni, la musica, il tempo libero ed altri.
Per questi ultimi sarà estremamente difficile fare
e dire qualcosa di nuovo, ma nonostante ciò tale impresa va iniziata senza
ritardi.
Risulta da questa bozza che i firmatari ed alcuni
altri intendono mettere in piedi una collana di pamphlets intorno agli
argomenti suesposti. Si è ben consapevoli delle difficoltà cui si va
incontro; e non tanto delle difficoltà tecniche isolatamente prese che sono
facilmente appianabili quanto del fatto di risolvere tecnica, divulgazione,
elaborazione, stile in modo unitario e non in momenti logicamente separati. Si è consapevoli
inoltre della necessità che più persone collaborino all’operazione, anche se
non si intende commettere l’errore di volere preordinare tutto assemblearmente ed
in anticipo.
Per cui si vorrebbe fare sì che ogni lavoro sia il
risultato di un’elaborazione collettiva; non solo, ma anche di una convergenza il
più possibile estesa verso condotte materiali comuni. Quindi si richiede ai
compagni destinatari di questa lettera di cercare di entrare in contatto nei
modi più proficui con i mittenti.
Volantino antilaborista diffuso a Torino in occasione del corteo del 1° maggio 1971. Il tono franco e spontaneo del testo, e la sua originale giustificazione tipografica, ottenuta con l’impiego ripetuto del simbolo di “=” (uguale), inducono ad attribuirne la paternità a Carlo Ventura. (Pier Franco Ghisleni)
INDIRIZZO AL POPOLO LAVORATORE ABBRUTITO DALLA PRATICA DEL LAVORO ED ACCECATO DALLA SUA IDEOLOGIA, AFFINCHÉ SCACCI DAL CUORE E DALLA MENTE OGNI AMORE PER QUESTA ABERRAZIONE, FONTE DI TUTTE LE MISERIE E PONGA IN ESSERE LA SUA CONCRETA DISTRUZIONE
Forse che non verrebbe considerato stolto chi, chiuso in una cella di una orribile prigione, benedicesse i suoi aguzzini ringraziandoli perché gli danno tetto e cibo sicuro?
E dieci volte stolto qualora, covando la ribellione nel suo cuore, egli affidasse le sue sorti ai cappellani del carcere, il cui programma fosse il miglioramento delle celle o, al massimo, l’autogestione dei detenuti del carcere stesso?
E cento volte stolto qualora, dimentico di ogni libertà, pensasse che l’unico mondo possibile è quello delle sua orribile prigione e scambiasse i latrati dei cani da guardia per annunci della sua liberazione?
E mille volte stolto qualora, periodicamente ed in unione con altri infelici suoi pari, formasse delle processioni per inneggiare alle grandi conquiste dei prigionieri ed alla libertà, sotto il complice occhio di un direttore benevolo?
Non c’è chi non possa vedere in costui ogni segno della peggiore demenza. Ma c’è poco da rallegrarsi poiché il POPOLO LAVORATORE è come il nostro prigioniero demente. È facile capirne il perché. Basta cambiare alcuni termini:
CELLA=FABBRICA / PRIGIONE=SOCIETà / AGUZZINI=FUNZIONARI DEL CAPITALE E SUOI SGHERRI / CAPPELLANI=PARTITI E SINDACATI / LATRATI=SLOGAN PSEUDO RIVOLUZIONARI SCANDITI PERIODICAMENTE DA GIOVANOTTI DI SINISTRA
La liberazione dal lavoro è la condizione preliminare per il superamento della cosiddetta SOCIETÀ DEI CONSUMI e per l’abolizione nella vita di tutti della separazione tra TEMPO DI LAVORO e TEMPO LIBERO (in realtà il TEMPO per gli individui non esiste se non come quantità vendibile e consumabile e mai come libertà assoluta di organizzare il proprio piacere).
LA NECESSITÀ DELLA RIVOLUZIONE TOTALE È STORICAMENTE POSTA ALL’UMANITÀ
La concentrazione capitalista dei mezzi materiali ed ideologici e la sua distribuzione sociale si trova di fronte sempre più minacciosa l’INSODDISFAZIONE crescente di tutti.
La società del capitale promette ma non può mantenere. Non può mantenere alcuna promessa di felicità poiché il suo fine stesso (produzione) ed i suoi mezzi (lavoro etc.) sono chiaramente OPPRESSIVI.
I proletari stanno lanciando la sfida alla società e non per una società DIVERSA o MIGLIORE ma per l’abolizione di OGNI SOCIETÀ (intesa come agglomerato di individui-merci retti da uno scopo ad essi superiore).
I PROLETARI LOTTANO PER IL COMUNISMO SUBITO
NON VOGLIAMO TUTTO merda compresa VOGLIAMO IL MEGLIO ASSOLUTO
I CONSIGLI PROLETARI (strumento del POTERE ASSOLUTO DI CIASCUNO SULLA PROPRIA VITA) stanno per sorgere sulle rovine di ogni potere separato. La felicità in armi esige di prendere il posto dell’infelicità oggi esistente. La distruzione del dominio del capitale e dei suoi strumenti è l’unica FESTA che il proletariato può desiderare.
È TEMPO DI INIZIARE CONCRETAMENTE LA LOTTA PER UN 1° MAGGIO PERMANENTE, CIOÈ PER L’ABOLIZIONE DEL LAVORO E DEL TEMPO CAPITALISTA.
CHI AMA IL LAVORO
È UN MASOCHISTA
O SI CHIAMA CAPITALE