Limiti della teoria radicale. Contributo di Valerio Bertello – Torino 2005

I.COMONTISMO

1. La prospettiva

Gli atteggiamenti, cui corrispondono altrettante teorie, che in generale si possono adottare di fronte alla questione della rivoluzione e in generale del mutamento sociale si possono ridurre ai seguenti.

Alcuni ritengono che la rivoluzione sia un risultato, altri che sia qualcosa da vivere. I primi sono gli attendisti, che considerano la rivoluzione come un processo, e un processo soprattutto sociale, e quindila vita del rivoluzionario condizionata da esso. I secondi sono gli immediatisti che vedono la rivoluzione come qualcosa realizzabile qui ed ora, anche e soprattutto individualmente.

Inoltre, c’è chi pensa che la rivoluzione sia un risultato storico cioè oggettivo, e chi crede che può essere costruita. I primi sono i deterministi, per i quali la rivoluzione si realizza indipendentemente dagli individui, come un fenomeno naturale. I secondi sono i volontaristi, che credono che la rivoluzione vada prodotta, cioè pensata e organizzata.

Infine, c’è chi ritiene che la trasformazione sia determinata da fattori materiali, cioè economici, e si tratta dei materialisti. E che pensa che decisivi siano i fattori spirituali, cioè le idee, e sono gli idealisti.

Su queste coordinate sono situate tutte le correnti storiche e i movimenti rivoluzionari finora esistiti.

In rapporto a tali categorie comontismo ha costituito indubbiamente una esperienza che si caratterizza per un immediatismo estremo, ma anche per un volontarismo esasperato e un radicale idealismo. Esso condivide tali aspetti, e li esprime compiutamente, con ciò che di più innovativo era stato espresso negli anni 70, cioè l’idea e la pratica di una rivoluzione senza transizione, e quindi senza partito rivoluzionario, senza strategia, senza guerra civile e senza dittatura del proletariato. Teoria e prassi queste che essenzialmente che nasce vana dalla potenza manifestata dal movimento rivoluzionario dell’epoca, che aveva raggiunto il suo punto più alto nel Maggio francese, momento storico che che veniva appunto percepito e vissuto dalla parte più avanzata del movimento in termini immediatisti, volontaristi e idealisti.

2. Una vita rivoluzionata

Ma l’elemento più caratteristico di comontismo resta l’immediatismo,che però non va inteso come semplice utopismo, ma come convinzione che realizzando ognuno soggettivamente il comunismo, cioè ponendo ciascuno sé medesimo come individuo immediatamente sociale, ciò avrebbe comportato immediatamente il comunismo oggettivo, cioè la comunità umana dell’essere (cioè al comontismo = com + ontos + ismo = essere comune = gemeinwesen, in Marx) e la fine della comunità reificata della società borghese.

Da tale idea del comunismo e della sua realizzazione scaturiva il principio della coerenza individuale, riducibile alla identificazione tra vita privata e attività politica, cioè pubblica. Ciò che rimandava necessariamente non solo alla critica dellapolitica ma anche a quella della vita quotidiana, simmetricamente necessarie l’una alla realizzazione dell’altra. Da tali assunti derivavano una serie di principi comportamentali, le cui conseguenze pratiche risultavano costituire soprattutto un completo rivolgimentodella vita immediata degli individui.

– critica della proprietà: rinuncia radicale alla proprietà individuale secondo il principio: tutto in comune, nulla di personale.

– critica del sacrificio: rifiuto di ogni attività pianificata e finalizzata, considerata repressiva, perciò del lavoro in quanto attività non solo alienata ma organizzata, e quindi della divisione del lavoro e della specializzazione. Ciò che si risolve nella critica della razionalità borghese.

– critica della merce: rifiuto non solo di accumulare valore ma indifferenza sia rispetto al lusso, attuata come dissipazione, ma anche verso le ristrettezze, affrontate con indifferente ironia, il tutto accompagnato da una pratica generalizzata di espropriazione. Ciò che si risolveva in critica del consumismo.

– critica dei ruoli: sia quelli prodotti dal capitale (familiari, economici, istituzionali), che dal suo superamento apparente. Quindi rinuncia alla dimensione privata nella vita degli individui e radicale integrazione della propria esistenza nel gruppo, ciò che veniva garantito attraverso una critica collettiva delle azioni di ogni membro del gruppo, fino ai singoli gesti e ad ogni singola parola, critica unita ad una pratica di nomadismo incessante, praticato allo scopo di evitare l’identificazione con specifiche situazionidi vita.

– critica della politica: quindi del leaderismo, del militantismo, del partito di specialisti. Ma soprattutto critica della pratica tradizionale della politica,contrapponendo ad essa una esaltazione senza riserve dell’illegalismo, fino ad identificare la criminalità comune, da cui prendere esempio, con la vera azione rivoluzionaria radicale. Ciò nel contesto di una critica dell’operaismo, l’ideologia rivoluzionaria dominante del tempo, e dell’organizzazione anche di base delproletariato di fabbrica, in favore della spontaneità criminale che abolisce di fatto la proprietà borghese.

Tutto ciò era considerato una manifestazione dell’autonomia proletaria rispetto alla società borghese, di cui comontismo si considerava genuina espressione, e alla quale tendeva ad approssimarsi il più possibile.

3. Critica della vita quotidiana e lavoro

Tali posizioni sono sintetizzate nel concetto di critica della vita quotidiana. Ma ciò equivale a critica del momento del consumo, il quale di per sé, svolgendosi nel privato, si pone al di fuori della sfera del pubblico e quindi del sociale, in quanto accidentale rispetto ad esso. Pertanto la critica della vita quotidiana non possiede quel carattere di critica totalizzante che il movimento dell’epoca aveva supposto, e quindi nemmeno quello di critica radicale, in quanto non investe il momento essenzialmente sociale della vita, cioè il fondamento della socialità, costituito dalla produzione.Quindi ineludibile affiancare alla critica della vita quotidiana la critica del lavoro, come critica del momento della produzione, che invece si colloca interamente e necessariamente nella sfera del sociale, in quanto cooperazione nell’ambito della divisione del lavoro. Questi due momenti della critica quanto vengono separati diventano ideologia, rispettivamente quotidianismo elavorismo. Essicaratterizzarono i due movimenti radicali degli anni 70, il primo connotò comontismo e successivamente il movimento controculturale e quello ambientalista, mentre il secondo fu proprio dell’operaismo.

Il quotidianismo è una posizione critica il cui limite sta nell’ignorare il momento della produzione, escludendolo dalla vita degli individui come elemento irrecuperabile ed irrimediabilmente alienato dell’esistenza. Su tali presupposti però questa critica è possibile realizzarla praticamente soloisolandosi dalla società, cioè nel marginalismo, passaggio infatti realizzato dal movimento della cultura alternativa. In esso, nel tentativo di sfuggire all’alienazione capitalistica identificata con la vita cittadina dell’occidente sviluppato, gli ideali erano costituiti dalla comune rurale e dal viaggio in paesi esotici, ricercando così la vita autentica nel mondo contadino e nei paesi ancora poco toccati dai tentacoli del capitale, per esplorarne ed assimilarne la cultura e i modi di esistenza.Modalità questa di esistenza che nel tentativo di fuggire il capitale si traduceva in una aspirazione adun ritorno al passato. Essa costituitì la realizzazione, – unica possibile in un contesto di sostanziale, sebbene solo parziale, sconfittadel movimento rivoluzionario, – della critica della vita quotidiana. Tale realizzazione ebbe temporaneamente successo, ed è infatti ciò che ha potuto sopravvivere alla fine del movimento rivoluzionario dell’epoca,sviluppandosi come movimento ambientalista, ma senza superarne il limite, cioè il carattere di critica separata del consumo.

Tale successo fece sì che la critica del lavorismo operaistico fosse adeguatamente sviluppata, ma ciò fece dimenticare che la critica della vita quotidiana, il grande movimento teorico dell’epoca, costituiva in quanto quotidianismo solo l’antitesi del lavorismo, e aveva necessità essa stessa di essere criticata e superata, se voleva divenire effettivamente critica radicale.

II. IL QUOTIDIANISMO

1. Lo spettacolo

La categoria fondamentale della critica situazionista, è lo spettacolo. Essa è equivalente a quella marxiana di feticismo della merce, che pone in evidenza come l’attività umana volta alla produzione e consumo di beni, cioè l’economia, sfugga al controllo consapevole dei produttori, poichè invece di esserefinalizzata alla soddisfazione dei loro bisogni al contrario li domina totalitariamente, presentandosi ai loro occhi come movimento autonomo delle cose, che in tale fantasmagoria non appaiono più come beni fruibili ma acquisiscono ideologicamente il carattere di merci. Così nel momento in cui la società pare superare definitivamente l’alienazione naturalecompare una nuova servitù pseudonaturale “dove si esprime la completa signoria sull’uomo della materia colpita a morte” (Marx). All’origine di tale stato di cose vi è l’atomizzazione della società borghese, cioè la concorrenza fra gli individui, dove le scelte apparentemente libere degli individui isolati e in competizione producono complessivamente non la felicità collettiva, come credeva Smith, dove il suo ottimismo si esprimeva nella metafora della provvidenziale “mano invisibile”, ma un caos generalizzato dominato dall’idea di valore. Infatti, poiché la cooperazione avviene sotto l’egida della divisione del lavoro, la soddisfazione dei bisogni ha luogo attraverso scambi di tempo di lavoro i cui rapporti di equivalenza sono decisi dal mercato, e che quindi nessuno è in grado di conoscere a priori, determinando una incertezza che si risolve nel disagio di tutti poiché nessuno in tale disordine può essere certo del valore del suo lavoro. Non solo ciò produce l’infelicità di coloro che in tale società sono inevitabilmente i perdenti, cioè i nullatenenti che per vivere devono accettare il ruolo di subordinati e sfruttati, ma anche di coloro che datale conformazione della società sono più avvantaggiati, i proprietari, cioè i borghesi, che in ogni momento possono perdere tutto. La mano invisibile si rivela tirannica e contradditoria, poiché realizza sì una radicale socializzazione della produzione ma al prezzo di una generalizzazione dell’individualismo proprietario, cioè dell’isolamento e dell’antagonismo degli individui, dello scadimento della qualità delle merci e degli individui stessi trasformati in merci, quindi della qualità della vita. Lo spettacolo è il feticismo delle merciportato all’estremo, cioè quello della società attuale, in cui diviene totalitario.

2. La critica

La critica dello spettacolo è la critica dell’ideologia nella società presente. Essa si articola nella critica della produzione di merci e del loro consumo. Quindi da una parte è critica del sistema di fabbrica, cioè dell’impresa capitalistica come produzione di merci attraverso merci,dall’altra critica del consumismo, quindi della vita degli individui ridotta al consumo di merce, che si riduce a sua volta alla produzione dell’individuo come merce. La prima critica è sorta, e si è realizzata storicamente, nel movimento rivoluzionario classico, all’epoca del primo avvento del dominio reale del capitale, ancora profondamente immerso nel dominio formale e quindi ancora ristretto alla produzione, e pertanto critica di un capitale esso stesso centrato sulla produzione. Tale critica era fondata su una teoria essenzialmente economicista e lavorista, cioè il materialismo storico, ponenva come soggetto storico un proletariato costituito essenzialmente da operai di mestiere e venne realizzata nelle pratiche autogestionarie di costoro: i soviet in Russia, gli arbeiter rat in Germania, le comuni spagnoledurante la guerra civile ne sono le attuazioni pratiche più significative.

La critica del momento del consumo è successiva, sebbene le organizzazioni proletarie dell’epoca precedente si ponessero consapevolmente come prefigurazioni del comunismo realizzato, e quindi la loro attività investisse anche il tempo esterno alla produzione, cioè delconsumo. Ma per divenire critica consapevole, e superare il suo carattere precapitalistico, deve attendere l’avvento della seconda rivoluzione industriale, in cui nascono la produzione e il consumo di massa. Si tratta del secondo avvento del dominio reale del capitale, nel quale esso organizza e produce capitalisticamente come merce i propri presupposti, in primo luogo la forza lavoro, ed ha come protagonista il proletariato dell’operaio massa, cioè dequalificato. La critica del consumo assume inizialmente l’aspetto della critica culturale: come tale sorge in Germania, sviluppata dalla Scuola di Francoforte come critica dell’industria culturale, mentre negli USA si manifesta come movimento della cultura alternativa, che esprime compiutamente i contenuti dei movimenti giovanili di contestazione in questo periodo (blouson noir, provos, beatnik, mods e rockers, etc.). Ma è in Francia, con il situazionismo, che tale critica raggiunge la suo espressione più matura. Tutte queste correnti confluiranno, insieme al movimento operaio, nelle lotte degli anni 70.

3. I due momenti della critica

La critica del capitaleha dunque una duplice radice. Da una parte, in quanto critica della produzione che, dopo aver superato il semplice luddismo quale momento puramente negativo, si pone nella prospettiva dell’autogestione, espressa storicamente nei consigli di fabbrica, comepositiva possibilità di gestione non alienata della produzione. Dall’altra, in rapporto al consumo, la critica si esprime come critica della vita quotidiana, categoria introdotta dai situazionisti. Essa, in quanto momento della negazione, rappresenta l’espressione teorica dei movimenti giovanili dell’epoca, essi stessi prodotto dei consumi di massa. Mentre, quale momento del superamento positivo, considera i movimenti artistici d’avanguardia nella prospettiva del superamento dell’arte per sua realizzazione nella vita, ciò in quanto percezione di nuove possibilità di esistenza consentite dallo sviluppo delle forze produttive dell’epoca presente.

Solo la loro unità dialettica costituisce la critica dello spettacolo, cioè della merce. Le due categorie, l’autogestione quale superamento del lavoro alienato e la realizzazione dell’arte come superamento della vita quotidiana alienata, sono necessariamente complementari, in quanto non è possibile contrapporle se non riducendo la prima a semplice critica dell’economia, cioè lavorismo, in pratica a capitalismo di stato, la seconda a vuota critica culturale che porta ad una forma di militantismo del quotidiano, cioè al quotidianismo. Lavorismo e quotidianismo sono criticaalienata perché parziale, e quindi critica permessa, del lavoro e del consumo. Ciò è comprovato dal fatto che essi prontamente degenerano nella loro controparte capitalistica, cioè riformismo e consumismo, cioè la loro realizzazione possibile immediata nel capitale, l’elogiotributato dal capitale e dal lavoro alienato al lavoro stesso ed al consumo.

Poiché i due momenti della produzione e del consumo non possono essere separati nella prassi sociale, così è per la loro critica, per cui non si può contrapporre autogestione e realizzazione dell’arte. Pertanto, il reale superamento dello stato di cose esistente si ha solo come sintesi pratica delle due critiche, cioè con l’autogestione generalizzata, dove si realizza il potere di ognuno su se stesso come potere assoluto dei comitati di gestione, cioè nella gestione collettiva autodeterminata di ogni aspetto della vita. Infatti, l’autogestione nella produzione è critica della vita quotidiana portata nel lavoro, e implica l’appropriazione dei mezzi di produzione e la loro gestioneconsapevole, nei fini e nei modi, da parte dei produttori. La critica della vita quotidiana è l’autogestione portata nel momento del consumo, e significa gestione collettiva e consapevole del tempo libero dal lavoro, attraverso assemblee e comitati ad ogni livello, di caseggiato, di quartiere, etc. fino ai livelli più ampi e generali,ma anche gruppi di affinità,ed associazionitematiche.Tali collettivi si esprimono sia occupandosi di iniziativeludiche di ogni genere che dei bisogni essenziali degli individui, cioè l’educazione, la sanità, etc. Ciò di concerto con organi similari che gestiscono la produzione. Quindi la critica pratica e il superamento del capitale giungono all’ esistenza reale con la costituzione di tali organi, dove la socializzazione della produzione non è più in opposizione con l’appropriazione individuale e privata del prodotto.

4. Genesi: lavorismo e quotidianismo

Implicito nel concetto di merce èlo scambio di beni tra individui che ne sono proprietari, quindi la merce implica la proprietà.Ma il fatto che il mondo delle merci domini il mondo umano significa che non gli individui possiedono le merci ma al contrario che sono le merci a possedere gli individui, a deciderne il destino. Si determina cioè da parte dei produttori un rapporto di sudditanza con la loro produzione, cui viene attribuito il carattere dell’autonomia rispetto ai loro creatori, producendo così quel particolare rapporto tra uomini e cose che costituisce il feticismo delle merci.Nella sua forma più generale esso si manifesta nel fatto che quanto è già stato prodotto impedisce di andare oltre ciò che esiste ed è stato acquisito. Ciò che èimpedisce l’avvento di ciò che potrebbe essere. Ma quello che appare come un fatto oggettivo ha alla sua radiceun elemento della coscienza sociale, cioè che la paura di perdere ciò che è acquisito impedisce di prendere coscienza della reale abbondanza attualmente già esistente e delle potenzialità che ivi giacciono incomprese, e quindifrena lo slancio verso mete ulteriori. E’ l’ancestrale paura della penuria, condizione progressiva nelle società naturali, dove la natura dominava il corso della vita perché stimolo al superamento di tale disumana condizione, l’alienazione naturale. Essa però, nonostante tale superamento sia di fatto già realizzato, paradossalmente è ancoraciò che domina la società attuale. Essa continua a permeare il mondo del capitale, paura non immotivata data l’incertezza che continua a dominare tale mondo, dove l’alienazione naturale è stata sostituita da quella sociale. Paura che ostacola da sempre il movimento rivoluzionario, che per il timore di perdere ciò che ha finora conquistato finisce per perdere se stesso. Paura consapevolmente alimentata ed amministrata dal capitale, che riconosce in essa il suo principale sostegno ideologico.

Essa è alla radice del lavorismo come del quotidianismo. Il primo, e ancor più il riformismo che immediatamente ne consegue, costituisce l’accettazione di tale paura in termini razionali e quindi senza scompensi emotivi, cioè compiuta coscientemente. Il secondo, incalzato dal suo inseparabile compagno, il consumismo, ne è l’interiorizzazione in terminicontradditori, cioè moralistici e quindi emotivi, in cui la nota dominante è il senso di colpa e l’incapacità di essere consapevole dei propri processi mentali. Ciò determina atteggiamenti contradditori, da una parte gesti esasperatamente radicali ma in realtà tali solo superficialmente, e dall’altra comportamenti reificati di cui però non si ha piena coscienza.

Questi fenomeni sono aspetti del feticismo della merce, poiché in esso se le merci sono personificate gli individui stessi sono reificati. Ciò avviene concretamente attraverso l’assunzione di ruoli da parte degli individui e della loro identificazione con essi. Essi fissano gli individui in schemi comportamentali determinati, in cui gli individui si identificano e dai quali traggono certezza di sé. Così come assicurano la fluidità dei rapporti sociali, da cui il sociale ugualmente trae la propria certezza. I ruoli fondamentali sono quelli del lavoratore salariato, – quello più diffuso, – cioè di esecutore, e quello di proprietario, cioè di dirigente, – in proprio o per delega, – del processo di produzione. Così si realizzal’antropomorfosidel lavoro e del capitale, e del lavoro come capitale variabile, che è identico al costituirsi delle classi sociali considerate sul piano comportamentale e ideologico, che costituiscono, – esse stesse e non i singoli individui, -la reale e concretamaterializzazione e personificazione delle categorie economiche. Qui ritroviamo il classico concetto di alienazione, centrale in Marx, che egli a sua volta ha tratto da Hegel. La reificazione, in questo senso colpisce ognuno, ma mentre per il capitalista si risolve complessivamente a suo vantaggio, per il proletario alla spersonalizzazione si assomma la frustrazione e la consapevolezza di costruire e riprodurre ogni giorno la gabbia in cui è rinchiuso, cioè di produrre il proprio disagio esistenziale.

5. Fenomenologia

Il proletario in tempi di stabilità sociale è costretto a produrre il dominio capitalistico, che egli trova di fronte a sé come un monolito inattaccabile. In tale contraddizione la volontà di superamento di tale misera condizione, che coincide con la propria volontà di realizzazione come individuo, cioè l’immediatismo, si scontra con una realtà ostile che appare come una barriera insormontabile postatra il sé miserevole attuale e quello potenziale dell’autorealizzazione adeguata. Da ciò possono scaturire due atteggiamenti. Persa di vista la totalità l’immediatismo può tentare di realizzarsi nella produzione o nel consumo. La prima via è la più ardua, dovendo calarsi nel sociale, essendo questo l’ambito suo proprio, per cui, dovendo rinunciare all’autogestione, si abbandona presto il lavorismo, la critica permessa del lavoro alienato, che diviene prontamente il suo elogio capitalistico, approdando rapidamente al riformismo. La seconda via,essendo il luogo consumo posto nel privato, è quella più facilmente percorribile e quindi può rimanere un discorso critico sebbene parziale, cioè come quotidianismo.

Quindi si hanno due scelte. O assumere positivamente il proprio ruolo e gestirlo al meglio, scelta che nel movimento rivoluzionario giunge alla sua più elaborata espressione producendo il lavorismo e successivamente il riformismo e il conseguente recupero e assorbimento delle spinte rivoluzionarie. Oppure il proletario può assumere negativamente, cioè al contempo respingendolo, e quindicon senso di colpa e frustrazione, il proprio ruolo e quelli altrui, atteggiamento che costituisce il quotidianismo,il quale sorge essenzialmente quando un radicalismo impossibile deve ripiegare verso un compromesso con l’esistente, atteggiamento che successivamente scade nel consumismo, la sua verità pratica nel capitale,come è fin troppo evidente nei movimenti attuali.

In tempi rivoluzionari è il riformismo che si trasforma in lavorismo, ma la critica parziale che esso comporta produce il fallimento dei movimenti rivoluzionari. E compare anche il quotidianismo, come critica del proprio quotidiano alienato nel capitale, ma rimanendo limitato ad ambienti particolari esterni alla produzione (artistici, accademici, marginalismo, etc.), fallisce per gli stessi motivi. Solo nei momenti in cui si produce la sintesi, quando il proletariato prende direttamente e coscientemente su di sé la propria sorte, cioè quando si appropria della propria esistenza mediante l’autogestione generalizzata, il movimento rivoluzionario raggiunge il suo apice, il luogo adeguato alla propria essenza.

Che i due atteggiamenti, quello quotidianistico e quello lavoristico, abbiano la stessa radice è chiaro dal fatto che nelle rivoluzioni moderne entrambi compaiono nei periodi sorgivi quando il movimento cresce ma non ha ancora raggiunto l’apice, ma soprattutto nei momenti di riflusso, cioè immediatamente dopo ogni sconfitta. Infatti il quotidianismo appare quanto si tenta di reagire disperatamente alla sconfitta radicalizzando l’ultimo scontro possibile, quello con se stessi, tentando di realizzare il comunismo in una sola stanza. Dopo di che si scade nel consumismo e nella autovalorizzazione velleitaria. Il lavorismo appare quando si rinuncia all’emancipazione radicale del proletariato, per liberarlo solo come lavoro, ciò che accade nella fase declinante della rivoluzione, come nel maggio francese con gli accordi di rue Grenelle, o in Italia con il ritiro del blocco della FIAT in cambio della concertazione. Il riformismo, cioè la riconciliazione di fatto con l’esistente, giunge successivamente, quando, abbandonata ogni velleità si torna alla propria collocazione di classe, si fa di necessità virtù e si tenta di amministrare al meglio l’esistente, posizionandosi più o meno alla sinistra, o anche senza mezze misure sulla sponda opposta. Così si ha il ritorno al privato o alla politica istituzionale, con soluzioni diverse: cooperativismo, sindacalismo, carrierismo, isolazionismo, edonismo, etc., o anche alcolismo.

Seil lavorismo-riformismo è sempre accompagnato da appelli al realismo e alla concretezza, al quotidianismo al contrario (ma solo apparentemente) è correlato un atteggiamento moraleggiante riguardo ciò che un comportamento rivoluzionario e quale no, ciò che produce i suoi specialisti e le sue pratiche inquisitorie. Ciò non fa che acutizzare il disagio, e che agli individui sfugga il fatto evidente che si tratta solo di modalità di esistenza determinate oggettivamente, cioè dalla storia, e – al netto di ogni opportunismo ed eroismo accidentali, – ­non da scelte individuali. I comportamenti individuali sono cioè un fatto determinato eminentemente da un contesto oggettivo, dove poi in seconda istanza maturano le scelte individuali che definiscono lo stile di vita, che variano secondo l’individuo e la sua particolarità, che tenderanno a definire i suoi rapporti particolari con l’esistente. Ma ciò definisce l’individuo, ed è rilevante solo per la sua coscienza individuale, non per il corso della storia, e per la rivoluzione, determinati dai rapporti di classe. D’altra parte, tale ideologia, pur scaricando sugli individui la responsabilità della perpetuazione dell’esistente, ciò che è falso, giunge al risultato paradossale di attribuirne la responsabilità ultima agli oppressi che non si ribellano, e svia l’attenzione da coloro che, secondo tale punto di vista, ne sono i veri responsabili e beneficiari, i borghesi, ciò che è in parte vero.

6. Ciò che importa.

In realtà sia il lavorismo-riformismo che il quotidianismo- consumismo sono problemi che si risolvono da sé, poiché scompaiono quando le reti del controllo sociale si allentano e vengono spezzate. Allora, venendo meno la situazione che alimentatali scelte, sia politiche che comportamentali,allora esse sono di colpo superate. Allora sia il potere degli sfruttati nell’autogestione che la realizzazione pratica dell’individuo in tutte le sue potenzialità, “dove la realizzazione di ciascuno è la condizione della realizzazione di tutti” (Marx), possono avere libero corso, non implicano più né compromessi e cedimenti, né sacrifici ed eroismi, che sono sostituiti dallo slancio entusiastico verso l’attuazione di una nuova esistenza sociale ed individuale. Maessi ricompaiono nelle fasi di riflusso della spinta rivoluzionaria, quando ciascuno è riassorbito dai suoi ruoli, ed in ultima analisi dalla sua posizione di classe, ricompaiono doppiamente pericolosi, ma sempre inevitabili.

In conclusione il quotidianismo è l’atteggiamento di chi crede che non la rivoluzione, quale processo collettivo,produce l’uomo rinnovato ma è l’individuo che, emancipandosi da solo nella sua intimità, produce la rivoluzione. Si tratta di un atteggiamento misticoche crede nell’anima e nel suo potere sul corpo, ma in forma laica, quindi impregnata di romanticismo,cioè dell’idea dell’onnipotenza dell’individuo borghese anche quando si tratta di negare se stesso.

Ciò che è invece necessario è l’essere pronti a saltare in groppa al cavallo della rivoluzione sociale quando questo appare, dovunque appaia, e andare con esso, anche a rischio di rimanere delusi. Il vero rischio è di rimanere a guardare, ciò che accade quando ci si macera nell’introspezione, rimanendo così sempre mestamente a lato degli avvenimenti, che il più delle volte non vengono nemmeno percepiti. Con tutti i suoi limiti, il reale concetto di rivoluzione è quelloper cui esse è premio a se stessa, indipendentemente dai suoiesiti, del resto mai prevedibili. Se alla fase ascendente seguirà il riflusso, è tuttavia essenziale poter dire volgendosi indietro: “Per un momento abbiamo potuto essere padroni del nostro tempo, cioèessere noi stessie non quello che i padroni della nostra vita vogliono che noi siamo.”