Genova, 7 giugno 1968. A pagina 10 articolo ‟la lega operai studenti”.
In basso, ricordo di Sergio Ghirardi e trascrizione articolo.

A PROPOSITO DI FALL OUT, di Sergio Ghirardi.
Tra il 1966 e 67, un clima sociale generale che cominciava a ribollire ha fatto sì che a Genova persino un giornale reazionario come il Corriere Mercantile fosse toccato dalla sensibilità montante di una possibile fine di un’epoca. Una Pagina dei giovani settimanale venne inclusa nella testata, totalmente autonoma dal resto del giornale e dalla sua linea editoriale. Questa iniziativa paternalistica aveva certamente anche un’intenzione di recupero mercantile ma esprimeva anche una sincera curiosità su quella che si chiamava genericamente contestazione e che affascinava anche quanti non si sognavano neppure di discutere un capitalismo dominante ma non ancora trionfante nel suo dominio reale.
Non si tratta certo di sopravvalutare la radicalità di quelle pagine e neppure la mia personale appena in via di formazione. Si è trattato tuttavia di un sintomo interessante.
La società dei consumi si illudeva allora semplicemente di poter consumare anche la giovinezza senza capire ancora quanto la rivolta, il rumore e il furore sarebbero di li a poco andati lontano.
Questa pagina era aperta senza preclusioni a chiunque si presentasse. Mi trovai dunque a parteciparvi, giovane studente di filosofia senza conoscenze altolocate né raccomandazioni di sorta, interessato al giornalismo e all’informazione, diventandone rapidamente un “redattore” accreditato. Le mie tendenze radicali appena nascenti ( avevo allora 19 anni e cominciavo a leggere Marx, Reich e compagnia tra un allenamento ed una partita di calcio, parecchi terzigli notturni nel bar e qualche effusione erotica) mi portarono a far circolare l’informazione su quel che mi sembrava più interessante del panorama genovese. Organizzai così, tra l’altro, in un primo tempo, un’intervista coi membri del circolo Rosa Luxembourg e operai poi, lungo tutto l’arco della mia collaborazione a quella testata sui generis, nell’intento, decisamente ingenuo, di radicalizzarne la funzione. Bisogna dire che allora tutto sembrava davvero possibile per chi avesse la coerenza e la voglia di non accettare compromessi di sorta.
All’interno della redazione c’erano naturalmente anche altre tendenze ben diverse: da quelle liberal-socialiste (di un Giulio Anselmi, per esempio, che imperversa ancor oggi su giornali e schermi come saggio giornalista di sinistra ultramoderata, immutato, con la stessa austera espressione da vecchio padre severo che già aveva allora nonostante la giovane età) a quelle burocratico ricuperatrici (comunisti, gruppuscolari vari e altri maoismi, teologie della liberazione e altri cristianesimi; anche Paolo Virno vi è passato). Claudio Tempo, ottimo musicista creativo e critico musicale con cui fui amico stretto per qualche tempo, ebbe un ruolo centrale in quella microcostruzione di situazione.
Sull’onda del maggio fu improvvisamente decisa una ristrutturazione della pagina, quasi che il giornale, ed i Fassio che ne erano i proprietari, cominciasse a temerla come un cavallo di Troia della contestazione. FallOut fu allora finanziato come una sorta di Potlatch con i fondi redazionali rimasti, come un baroud d’honneur che, componendo con le diverse anime di quel gruppo informale ed eterogeneo, cercava di esprimere il coacervo di tendenze e di rabbie, di desideri e di speranze, di confusioni e di lucidità nascenti che attraversavano un mondo in rapida mutazione. Proprio come in un fall out ognuno partì poi verso i propri diversi destini.
Con l’articolo sulla Lega operai e studenti, della quale del resto ho fatto parte con l’informalità che ha sempre caratterizzato tutte le mie partecipazioni, volevo testimoniare la presenza di una tendenza comunista radicale che avrebbe presto trovato nella teoria situazionista il suo riferimento centrale e soprattutto il suo superamento, la sua critica radicale.
A proposito di FallOut, mi sembra di ricordare – non ho qui sottomano un numero della rivista – che avevamo voluto dare un’idea di tutti i movimenti di rivolta e di resistenza che affioravano dappertutto e che costruivano quella dimensione euforica di una rivoluzione che sembrava ormai ineluttabile. Poi il principio di realtà ha servito diversi aces ed il principio di piacere, quaranta anni dopo, non sembra ancora pronto a rispondergli. L’allenamento comunque continua.
La lega operai studenti
La “Lega degli Operai e degli Studenti” è nata alla fine del
1967, in collegamento con le lotte studentesche nell’Università e nelle
Scuole Medie della nostra città, che si legavano del resto a quelle del
Paese in pieno svolgimento. Ma sarebbe un errore pensare che la “Lega”
sia nata dall’idea, venuta ad alcuni studenti che partecipavano a quelle
lotte, di collegarle alle lotte operaie in modo volontaristico e dovuto
ad una convinzione esclusivamente ideologica.
In realtà, preesistevano gruppi di militanti rivoluzionari,
operai e intellettuali, che da tempo lavoravano, con certe impostazioni
politiche, alle fabbriche e ad essi si erano avvicinati gruppi di
studenti che cercavano di condurre anche nella Università e nelle Scuole
Medie cittadine, una lotta che si avvicinava, nella concezione
generale, a quella che cercavano di stimolare e appoggiare nelle
fabbriche i militanti, operai e intellettuali già riuniti ed operanti
nel Circolo “Rosa Luxemburg”, cui pervennero i gruppi di studenti di cui
abbiamo detto. Quando si svolsero le lotte studentesche nel novembre e
dicembre del 1967, mentre si svolgevano altre lotte operaie, queste, in
un settore dell’Italsider-Sci e alla Cressi-sub i militanti operai,
intellettuali, studenti si trovarono insieme in tutte queste lotte. E da
questa unione pratica, e dalla discussione politica dei metodi, delle
motivazioni, degli obiettivi delle lotte, dalla necessità constatata di
unificarle in una lotta comune contro un comune nemico nacque la
convinzione della necessità di organizzarsi nella “Lega” in cui
confluirono i militanti del Circolo “Rosa Luxemburg”.
Naturalmente, la chiarificazione politica e la organizzazione
concreta sulla base della prima, non furono cose agevoli nella “Lega”,
come invece era parso a molti dei suoi membri, se non a tutti, quando si
risolse che era venuto il momento di costituirla. La provenienza
politica e sociale, le esperienze, l’ambiente culturale e di lavoro ecc,
erano molto differenti per i membri della “Lega” e fra alcuni gruppi
(tra gli intellettuali di diversa formazione, e soprattutto fra gli
studenti e gli operai) le differenze erano fortissime, come è
comprensibile. Rendere omogenea la “Lega” non era un compito facile, e
del resto è lontano dall’essere risolto. Ma alcuni principii unificatori
sono divenuti comuni ai membri della “Lega”. Il primo è che nessun
“fronte” di classe può sovvertire questa società, se non ha come perno
la presenza attiva della classe operaia, sia a livello nazionale che
internazionale, del resto inscindibili fra loro. E perciò le ideologie
castrista, guevarista e maoista, sostenitrici della guerriglia e delle
rivoluzioni contadine del Terzo Mondo che alla fine faranno esplodere le
contraddizioni anche all’interno del capitalismo avanzato delle
metropoli industriali, quando cioè la “campagna” internazionale (il
Terzo Mondo) avrà assediato e costretto alla resa la “città”
internazionale (il mondo capitalistico sviluppato), promovendo in essa
la guerra civile fra capitalisti e operai. Queste ideologie, dicevamo,
non sono le nostre, perché accantonano la classe operaia come soggetto
storico centrale della rivoluzione capitalista. E’ una concezione
meccanica, ci sembra, perché vede un fronte compatto nel Terzo Mondo
contro il capitalismo imperialista., fronte che non è mai esistito in
questa forma.
Nel Terzo Mondo esistono gli strati sociali (essenzialmente
contadini) più sfruttati e oppressi della terra, ma esistono anche
borghesie, burocrazie, ceti medi, che sono pronti ad ogni compromesso
con l’imperialismo, quando la lotta contro di esso minaccia il loro
potere di classe “in loco”. Le lotte del Terzo Mondo contro
l’imperialismo non sono “funzionali” ad esso, come qualcuno sostiene
(andando al polo opposto rispetto ai maoisti, guevaristi e castristi)
perché l’imperialismo le eviterebbe volentieri, anche se i loro sviluppi
non hanno mai compromesso radicalmente il capitalismo. Vederle come
lotte “funzionali” significa immaginare omogeneo e compatto il fronte
imperialista, cosa che non è, non solo per i contrasti fra i
capitalismi, ma fra borghesia e burocrazia da una parte, e classe
operaia con altri strati sociali dall’altra.
Non si tratta di creare una posizione equilibrata o mediana fra
queste due, ma rendersi conto che il Terzo Mondo, è contraddittorio,
sul piano di classe, né più né meno del capitalismo imperialista. E
rendersi conto (se si mantiene la concezione della classe operaia come
soggetto storico potenziale della rivoluzione anticapitalista) che la
lotta di classe nel mondo capitalista è fondamentale, nel senso che ad
essa diventerà funzionale la rivoluzione contadina del Terzo Mondo, e
non l’inverso. Ma questo implica che non si consideri la classe operaia
come integrata, cioè come incapace, da sola, di arrivare ad esprimere la
coscienza della propria lotta e ad organizzarla nei Soviet, consigli,
comitati ecc, organismi rivoluzionari di massa che non esprimano il
potere degli operai, ma siano questo potere in atto. I sostenitori della
seconda tesi di cui sopra, che vedono nel mondo capitalista un fronte
compatto, almeno per ora, sostengono questo perché la classe operaia è
in esso integrata, per loro, nel senso anzidetto. Ma, appunto, per
questo, siccome la classe è incapace da sola di arrivare alla coscienza
politica rivoluzionaria, questa coscienza è fuori della classe, negli
“intellettuali-scienziati” e “rivoluzionari” di professione che
costituiscono Il Partito, coscienza permanente della classe operaia e,
naturalmente, scienza. Perciò, per questi gruppi politici, la
compattezza del mondo capitalista non è dovuta alla mancanza o
insufficienza di una autonoma azione ed organizzazione di classe (perché
questa non ci sarà mai, secondo loro), ma alla mancanza del Partito,
che cosciente della classe, la guiderebbe contro il regime capitalista
ecc. ecc. Perciò questi gruppi politici, di matrice leninista in senso
lato, pensano le stesse cose dei maoisti ecc., nei riguardi della classe
operaia: integrata nel sistema, da cui una certa compattezza del mondo
capitalista. Solo che i maoisti pensano che la classe operaia sarà
spinta alla lotta dalle vittorie antimperialiste, e i “leninisti” dalla
creazione del Partito. Entrambe le concezioni sostengono comunque che la
classe operaia non ha, e non avrà, alcuna autonomia, ma si muoverà per
cause esterne (la lotta del Terzo Mondo, l’azione del Partito).
Queste concezioni, da respingersi secondo la “Lega”, sono poi
tutte definibili come burocratiche. Esse concepiscono la classe operaia
come massa inconsapevole, che, deve essere guidata dagli specialisti
(economicismi, politici strateghi, “professionisti” della rivoluzione) e
naturalmente intellettuali borghesi o assimilati. Nella quale
concezione si ravvisano tutte le teorie fondamentali del capitalismo che
si vorrebbe combattere prima fra tutte la gerarchia.
L’organizzazione, nel capitalismo, non può che essere gerarchica, e così pensano anche questi “rivoluzionari”.
La borghesia è lo stato maggiore, di cui gli operai sono la
truppa: entrambi sono necessari, il primo per sfruttare, e la seconda
per essere sfruttata. E tutta la gerarchia della società capitalista,
che ha come compito di imporre e sviluppare lo sfruttamento dei
lavoratori, è l’unica forma di organizzazione della società. Ma i
leninisti non pensano in modo diverso: il Partito (cioè la sua
burocrazia, perché cosa sono i “rivoluzionari” di professione, gli
“scienziati”, se non burocrati inamovibili perché “sanno”, mentre quelli
che potrebbero o dovrebbero rimuoverli o controllarli non possono farlo
perché, appunto, non “sanno”?) è lo stato maggiore, e gli operai la
truppa. E se il Partito guida la classe al potere, una volta rovesciato
il capitalismo privato, gli sostituirà un capitalismo burocratico, nel
quale la burocrazia del Partito darebbe garanzie che questi fenomeni non
si ripeterebbero, quando la concezione che lo anima, è la stessa che ha
animato i vari Partiti, che hanno dato luogo al capitalismo
burocratico.
Del resto, il Partito più illustre fra questi, quello
bolscevico russo, ha lottato contro la tendenza a diventare classe
dominante per anni, senza evitarla. C’era arretratezza russa,
l’isolamento internazionale, ecc. ma anche se la rivoluzione, concepita
in quel modo burocratico, si fosse estesa alla Germania o all’Europa
occidentale, si avrebbe avuto un capitalismo burocratico lo stesso,
senza gli errori dello stalinismo forse, ma non meno antioperaio, alla
fine. Una concezione burocratica che nega ogni autonomia alle masse
operaie, non può che portare ad un regime burocratico (cioè capitalista,
cioè sfruttatore).
L’organizzazione, sia politica che sociale, non è
necessariamente solo gerarchica (burocratica): ammettere questo,
significa accettare il capitalismo come immortale.
Le masse operaie hanno dimostrato di sapersi organizzare esse stesse, coscienti ed autonome, dunque di essere rivoluzionarie.
La Comune del 1871, i Soviets del 1905 e del 1917, i Consigli
tedeschi del 1918-19, i Comités Obreros y Campesinos del 1936 in Spagna,
i Consigli operai ungheresi del 1956 sono esempi di ciò. La loro
organizzazione non era gerarchica ma collettiva, ed essi aprivano la via
alla costruzione di una nuova società, che non sarebbe stata il
capitalismo burocratico ma il socialismo. Distruggere il potere della
borghesia non basta, se poi l’apparato statale resta lo stesso nella
struttura, l’organizzazione gerarchica e tecnologica del lavoro e della
società restano con gli stessi principi: questo significa che la
sostanza è rimasta, lo sfruttamento e la divisione in classi sono
intatti, solo che una burocrazia già rivoluzionaria ha preso il posto
della borghesia espropriata, trasformando il capitalismo privato in
capitalismo di stato. Il dramma è poi ancor più grave, se tutto ciò
viene mistificato definendo il capitalismo di stato come socialismo,
come è regolarmente avvenuto dall’URSS in poi.
La “Lega” respinge l’organizzazione gerarchica burocratica:
tutti i militanti decidono ed eseguono insieme l’attività comune, senza
dirigenti stabili, né formali né di fatto, che finirebbero per pensare
per tutti e dare degli ordini sulla base di conoscenze e capacità che
magari sono anche reali, ma non per questo devono essere uno strumento
di potere dirigente. Il monolitismo non esiste (esso è sempre imposto da
qualcuno, in realtà), ma naturalmente in una organizzazione politica la
volontà della maggioranza stabilisce l’azione per tutti, anche per la
minoranza (la quale dal punto di vista delle idee mantiene le proprie,
ma sul piano dell’azione è tenuta ad eseguire le decisioni della
maggioranza). Diversamente, non sarebbe questione di organizzazione
burocratica o antiburocratica, ma semplicemente non vi sarebbe
organizzazione (il che è burocratico, perché lascia che la società ci
organizzi in qualche modo, cioè in modo borghese).
La burocrazia non è uno stile di lavoro, ma uno strato sociale
della nostra società che aumenta sempre più. In altre società essa è una
classe dominante, sfruttatrice: e questo è l’obiettivo della
burocrazia, compresa quella dei Partiti e Sindacati “di sinistra”:
Le burocrazie “operaie” non respingono nessuno dei “valori”
della società capitalista, dalla divisione fra dirigenti ed esecutori,
alla divisione gerarchica dei salari, alla struttura statale, al
rapporto sociale oppressivo. Noi consideriamo le burocrazie “operaie”
come parte del sistema di sfruttamento operaio. Ma esse, grazie ad una
serie di avvenimenti storici, e grazie agli attivisti di fabbrica hanno
ancora una certa influenza sugli operai, specie sul piano sindacale.
Ignorare ciò significa non arrivare agli operai, o non essere compresi,
perché è difficile sostenere che un attivista sindacale, operaio egli
stesso, è inserito nel meccanismo dello sfruttamento. Nell’azione per
stimolare o appoggiare lotte autonome operaie, da cui possa uscire un
embrione di autorganizzazione di classe, non si può ignorare
l’importanza delle rivendicazioni operaie né quelle dei sindacalisti di
fabbrica, che bisogna coinvolgere in queste lotte, perché sono poi i
sindacati che firmano i contratti di lavoro; e finché non esiste una
organizzazione autonoma operaia che strumentalizzi i sindacati a suo
vantaggio, essi non possono essere ignorati, dando per scontato ciò che
per gli operai non lo è ancora, né può esserlo, se non sulla base di una
esperienza di autonomia e di organizzazione operaia positiva, e non
progettata. Questa esperienza non c’è ancora se non in momenti
particolari, insufficienti a stabilizzarla.
La “Lega” non si pone come potenziale gruppo dirigente della
classe operaia, per guidarla al socialismo, ma come gruppo di militanti
che intervengono dovunque ci siano lotte o sintomi di lotte operaie o
studentesche, per estenderle e rafforzarle per quanto è possibile,
proponendo un tipo di lotta, di organizzazione, di scopi che è
idealmente antiburocratico, ma che diventa tale praticamente solo se gli
operai si riconoscono in esso.
Nessuna direttiva può essere portata dalla “Lega” agli operai,
perché sarebbe inutile dire che cosa gli operai debbano fare, se sono
convinti che gli operai possano trovarlo da soli (magari col nostro
aiuto ma nulla di più). Noi possiamo avere una esperienza politica più o
meno ampia, ma non possiamo sostituirla a quella operaia senza portarci
su posizioni tradizionali, reazionarie. Noi appoggiamo e cerchiamo di
sviluppare le lotte, ma non le inventiamo né le dirigiamo. Questo è ciò
che è stato fatto per decenni, coi bei risultati che si possono vedere
agevolmente: i padroni sono organizzati a tutti i livelli, gli operai
sono isolati fra loro al massimo grado. Le loro “organizzazioni”
politiche e sindacali hanno il compito di dividerli e non di unirli,
perché inserite nel regime, che ha l’obiettivo di tenere divisi gli
sfruttati, e cementare gli sfruttatori e i loro tirapiedi.
Il rifiuto degli studenti di trasformarsi in funzionari del
capitale contro gli operai nelle fabbriche, sotto forma di tecnici,
periti, ingegneri, pianificatori, relatori umani, psicologi e medici
aziendali, ecc., dirigenti insomma, significa che il nemico è lo stesso,
la società dello sfruttamento con le sue gerarchie apposite e
funzionali.
Unire dunque la lotta operaia e studentesca appare necessario,
anche se operai e studenti non sono nella stessa situazione e non
possono muoversi con moduli identici. Il sistema delle assembleedi base
studentesche, che discutono e decidono, non può essere esteso alle
fabbriche per semplice proposta, perché nelle fabbriche questo sistema
significherebbe la vigilia della rivoluzione, e la situazione non è
questa. Così, l’ostruzionismo permanente all’attività reazionaria delle
burocrazie accademiche, trasferito nella fabbriche sarebbe il potere
nelle mani degli operai; il loro completo controllo sulla produzione,
sui ritmi, sui tempi, sull’organizzazione del lavoro, cioè la vigilia
della rivoluzione, anche qui. Ma l’obiettivo comune e i mezzi comuni,
anche se usati in modi e tempi diversi per necessità, implicano la
pianificazione delle lotte e l’organizzazione comune di esse. La “Lega”
si propone anche questo compito unificatore, attraverso i suoi militanti
operai e studenti.
Nessuno si nasconde le difficoltà della omogeneizzazione
politica del movimento studentesco, per l’origine sociale, la situazione
nella società, le caratteristiche stesse di vita degli studenti. Ma
questa omogeneizzazione politica e il collegamento con le lotte operaie,
devono essere obiettivi permanenti dei militanti rivoluzionari. Vanno
rifiutate le posizioni che vedono negli studenti una masnada confusa ed
ignorante, da cui però si possono trarre dei quadri peril fantomatico
“Partito di classe” che si deve creare da sempre, e non si crea mai.
Questo atteggiamento di disprezzo è simile a quello tenuto da questi
“rivoluzionari storici” di stampo “leninista” verso gli operai: massa
incosciente da cui si possono trarre alcuni elementi “buoni” e per il
resto non può che essere guidata per mano verso le grandi mete…
L’atteggiamento burocratico è sempre lo stesso, e si manifesta
in modo identico: lo stato maggiore osserva la truppa, anonima e senza
anima, con occhio sprezzante, e ne trae qualche individuo per
promuoverlo caporale o sergente perché “promette bene”. Questo, se è
fatto dalla burocrazia sovietica, potente classe dominante, è un fatto
importante, anche se va respinto politicamente: ma quando lo stesso
atteggiamento distingue movimenti di poche persone, senza poteri nelle
mani, che ne hanno davanti milioni, la cosa diventa delirante.
In una situazione come quella attuale, in cui il capitalismo si
burocratizza (e cioè si organizza, dal suo punto di vista) sempre più,
in cui la pubblicità e i consumi, la manipolazione e la propaganda, la
privatizzazione e la sfiducia orchestrata, arrivano dovunque: in cui
burocrazie di ogni genere si ampliano e si estendono dal movimento
operaio alla produzione, alla cultura, all’amministrazione politica,
ecc.; in cui la classe operaia non dà segni evidenti di
autorganizzazione e di autonomia di classe; in cui l’atomizzazione è
massima da ogni punto di vista; in questa situazione, dicevamo, cercare
di mantenere e sviluppare posizioni antiburocratiche, rivoluzionarie,
classiste, può apparire un compito disperato. E’ invece un compito che
va assunto con serenità, modestia, coscienza delle difficoltà, e senza
illusioni, facili entusiasmi o fanatismi: deve essere non un lavoro
“straordinario” dopo le ore di fabbrica o d’ufficio, ma un modo di
vivere.
La “Lega”