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Carlo Romano – La Critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970

Tratto da Fogli di via n° 26, fondazione De  Ferrari, Genova. (febbraio 2019?)

Nell’estate del 1969 vari soggetti si riunirono nei locali del romano Film- studio e diedero vita a “Ludd-Consigli proletari”. In un contesto che sci- volava sempre più, con diverse sfumature, nel limaccioso fronte ideologico bolscevizzante, il nuovo gruppo, animato principalmente da genovesi e milanesi, ribadiva la natura antiautoritaria del Sessantotto e allo stesso tempo rivendicava una tradizione di critica e ribellione che nei decenni aveva resistito al canto delle sirene che veniva da Est. I punti di congiunzione non mancavano.

Nel fatidico 1956 l’immagine della “grande e giusta Unione Sovietica” traballò nella vergogna e con lei i partiti che vi erano legati, per quanto le condizioni della “guerra fredda” ne rallentassero la dissoluzione vera e propria dell’elemento fideistico. Le critiche che al sistema moscovita ave- vano mosso tanto i comunisti radicali che i socialdemocratici cominciarono a circolare anche fra chi nelle ultime generazioni riscontrava in quel sistema, con la complicazione della fabbrica ideologica che era, la stessa intima natura del “blocco” avversario. Le teorie critiche della società salvaguardate nei passati decenni da piccoli gruppi di scarsa visibilità tor- narono attuali.

Nel corso del 1961 uscirono a Genova i tre numeri di “Democrazia diretta”. Fra i collaboratori, di diversa provenienza, c’era Romano Alquati che a Cre- mona aveva collaborato con Danilo Montaldi al gruppo di “Unità pro- letaria”, in contatto coi francesi di “Socialisme ou Barbarie”, che dei fatti genovesi – e non solo genovesi – dell’estate del 1960 aveva dato, riottosa nei confronti della retorica di partiti e sindacati e non coinvolta nel- l’antifascismo di maniera, una spiegazione incentrata su “operai e studenti che hanno maturato un profondo disprezzo nei confronti del potere che grava su ogni momento della loro vita di giovani”. Uno dei giovani coinvolti nei fatti dell’anno precedente e che finì col partecipare alla breve esperienza di “Democrazia diretta”, Gianfranco Faina, venne espulso dal PCI. Fu attorno a lui – attraverso volantini, partecipazione alle lotte, ef- fimere testate, gruppi di discussione, circoli, collegamenti, anche critici, che andavano dai “Quaderni Rossi” a “Socialisme ou Barbarie” e all’incontro con la teoria situazionista – che il Sessantotto in Liguria acquisì insieme alla continuità con la tradizione dei gruppi radicali e l’omogeneità con ciò che succedeva in quegli anni nel mondo giovanile, una spiccata originalità.

Non meno vivace, per quanto oscurata da circostanze più magmatiche, fu l’iniziativa dei milanesi. Qui si ebbe anche un rapporto diretto, fino al coinvolgimento teorico e pratico di Salvadori e Sanguinetti – e infine solo di quest’ultimo – con l’Internazionale Situazionista. Ma ciò che rientrava immediatamente nello scenario delineato fu il numero unico de “Il Gatto Selvaggio” redatto da Eddie Ginosa e dal torinese – trasferitosi a Milano inseguito da un mandato di cattura per uso di stupefacenti – Riccardo d’Este. Ambedue provenienti dal gruppo di “Classe Operaia”, facevano riferimento alla tradizione “consiliare” e allacciarono rapporti variamente caratterizzati (compresi anarchici e “beat” oltre a quello con un intellettuale di peso nel- l’editoria come Giorgio Cesarano) che via via si consolidarono. D’Este per altro fu il punto di congiunzione con la situazione genovese da lui ben conosciuta. Alla fine del Sessantotto le due esperienze trovarono un momento di incontro con la stesura del volantino “Il punto d’esplosione della menzogna burocratica” che fu l’antefatto alla fondazione di “Ludd- Consigli operai”. Il riferimento alle antiche lotte luddiste (sottratte proprio in quegli anni alla vulgata marxista-leninista dallo storico inglese E.P. Thompson) era significativo.

Mi spiace di non poter citare in questa sede i vari nomi di chi partecipò a tali vicende i quali tuttavia si possono recuperare nelle introduzioni di Paolo Ranieri e Leonardo Lippolis al volume che raccoglie tutti i reperti (non solo il “bollettino”) di “Ludd” e dei suoi antecedenti. Si tratta del primo dei tre volumi intitolati alla “Critica Radicale in Italia (seguiranno quelli su “Comontismo” e “Insurrezione”). Entrano in gioco i gruppi che, come ha scritto Piero Coppo, “inquadrarono la questione della rivoluzione in termini an- tiideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo”.

Dino Erba – Recensione di LUDD 1967-1970. LA CRITICA RADICALE IN ITALIA

Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 25.

L’OPERA È DIVISA IN TRE PARTI

La prima, L’occupazione definitiva del nostro tempo, di Leonardo Lippolis, è un excursus storico (persone, pubblicazioni, sigle, iniziative ecc. ecc.), succinto (55 pagine) ma sostanzialmente esauriente, a parte alcune lacune che segnalo poi.

La seconda parte, Vecchie favole intorno a un giovane fuoco, di Paolo Ranieri, è una lunga (192 pagine.) rifles- sione «politica», seppure nel solco dell’antipolitica.

La terza parte (circa metà del volume), raccoglie i documenti: giornali, volantini, manifesti che offrono inedite testimonianze sugli aventi e il clima di quegli anni. Il libro è il primo di una trilogia che tocca i primi anni Ottanta del Novecento, composta da: Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e oltre.

UNA FUGA IN AVANTI?

Per gli specialisti delle fughe all’indietro… Cit. in MANOLO MORLACCHI, La fuga in avanti.
La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X – Cox18Books, Milano, 2007.

A oltre mezzo secolo, il libro getta vividi bagliori su un’epoca che, in Italia, visse una stagione del tutto eccentrica nel contesto internazionale, sia riguardo alla cosiddetta contestazione studentesca sia riguardo al ciclo di lotte operaie che attraversò il decennio 1967-1977.

Certamente, Ludd fu una fuga in avanti, non solo rispetto al grigio clima cultural-politico italiano ma anche rispetto a quello internazionale, apparentemente più effervescente. Ma, forse, solo apparentemente.
Le sue argomentazioni possono oggi sembrare ingenue, a volte ambigue (mi riferisco alla spettacolare invo- luzione del situazionismo, su cui stendo un velo pietoso) . Erano suggestioni eversive che nascevano al culmine di una fase di espansione economica che, presto, avrebbe conosciuto un inesorabile declino.

Anticiparono temi che, in Italia, sarebbero stati affrontati nel decennio successivo, quando le sinistre comuniste ebbero un quarto d’ora di notorietà. Fu breve, ma fu ricco di iniziative (quasi esclusivamente edi- toriali), grazie alle quali, avvenne la mia crescita torica e politica. Fu una coraggiosa provocazione, di fronte al ritorno all’ovile dei più.

MA PRIMA, COME ERAVAMO?

Era un piccolo mondo e si teneva per mano. Era un mondo difficile, lontano oggi a noi … UMBERTO SABA, cit. a p. 67.

Dalla poetica di Saba, passo alla più prosaica realtà.

Nella dinamica del boom economico italiano dei primi anni Sessanta, si incontravano e si scontravano i secolari particolarismi cultural-politici, i recenti squilibri strutturali (città-campagna, Nord/Sud, flussi migratori interni) e le spinte modernizzatrici del capitalismo nostrano (in primis Olivetti, Fiat, Pirelli). A condire questo già saporito menu, dall’estero, giungevano nuovi stimoli culturalpolitici che contribuivano a ravvivare, se non a rompere, un clima ormai stantio, quando anche la Chiesa, con papa Giovanni, si apriva al «nuovo».

Ma cos’era il «nuovo» per l’Italia di allora? In buona sostanza, era il tentativo di coniugare l’American dream con il Vento dell’Est, ovvero un capitalismo competitivo ma seducente, grazie ai ritmi del rock, e un socialismo rassicurante, un po’ noioso, ma tecnologicamente efficiente, grazie allo Sputnik.

Fu un’impossibile quadratura del cerchio che visse una sua breve stagione, alimentando sogni e illusioni tra i giovani (e tra chi non accettava un meschino futuro). Nell’euforico clima di quegli anni, costoro, chi più chi meno, cercarono di cavalcare la tigre, dando vita alla critica radicale, come sarebbe stata definita, di cui il libro ci parla e che, ripeto, non ebbe apprezzabili riscontri fuori dall’Italia. L’Italia, pur recependo gli echi di quanto avveniva in altri Paesi, non li restituì. Per quale motivo?

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LA TRISTE SCIENZA DI TOGLIATTI E LA CRITICA DELLECONOMIA POLITICA DI MARX

Per quanto radicale, la critica scontava in Italia il retaggio di una cultura umanistica che, nelle sue più recenti espressioni – quella liberale di Benedetto Croce e quella fascista di Giovanni Gentile – aveva tenuto ben divise «arte e scienza». Non stupisce quindi che politici (NON politicanti) italiani, anche sovversivi (tranne le solite encomiabili eccezioni) abbiano sempre guardato con sospetto l’economia (la «triste scienza», secondo Palmiro Togliatti, massimo guru del pensiero nazional-popolare italiano).
Un simile retaggio affiora prepotente anche dalle considerazioni di Paolo Ranieri (p. 88). E non per nulla, Leonardo Lippolis, nel suo excursus, pur girandoci intorno, non parla della Sinistra comunista «italiana» (il Bordiga! Innominato, innominabile)(1) che, in quel periodo, si distinse per le sue analisi sull’evoluzione del ciclo economico postbellico. Sono studi quasi unici, anche a livello internazionale.(2) A onor del vero, anche la Sinistra «tedesco-olandese» (o consiliare), più volte evocata, con Anton Pannekoek e con Paul Mattick, si dedicò alla critica dell’economia politica. Perché di critica dell’economia politica bisogna parlare. Ed è questa la grande assente. Fu assente dai dibattiti e dai confronti di quegli anni e, anche oggi, la critica dell’economia politi- ca mostra una certa latitanza (tranne le solite encomiabili eccezioni).(3)

Per uscire da questo impasse teorico-politico, e abbordare la critica dell’economia politica, le premesse c’erano. Nel coro della critica radicale, c’erano molte voci, anche stonate, pronte a ricevere il la e animare nuove pulsioni.

OGGETTIVO O SOGGETTIVO? QUESTO IL DILEMMA!

Insomma, il vecchio mondo che già stava tornando attraverso i vari gruppi della sinistra extraparlamentare prese definitivamente il sopravvento.
Leonardo Lippolis, p. 60.

Fu la bomba di piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969) a segnare la battuta delle diverse ma congruenti espressioni della critica radicale. Trascorse però un decennio prima che fosse posta la «pietra tombale» su quanto essa, in tre anni, aveva disordinatamente e gioiosamente seminato.
Spiegare a caldo le sconfitte è come arrampicarsi sugli specchi. Soprattutto, in assenza di quei criteri che so- lo la critica dell’economia politica può offrire. Se usati cum grano salis

Nel milieu radicale, le spiegazioni oscillarono tra l’enfatizzazione di aspetti soggettivi, la trionfante controrivoluzione (per es. Gianfranco Sanguinetti) e l’enfatizzazione di aspetti oggettivi, l’antropomorfizzazione del capitale (Jacques Camatte e Giorgio Cesarano). In un caso e nell’altro, c’era del giusto… Prevalse la visione no future. Per alcuni fu la morte fisica (ricevuta o cercata), per i più fu la morte intellettual-politica (l’omologazione).
Ma anche chi si piccava di usare la critica dell’economia politica mostrò di essere ancora succubo di ideo- logie del passato che ottenebravano le armi della critica.

La Sinistra comunista «italiana», richiamandosi agli studi condotti con Amadeo Bordiga ancora vivente, vide nel 1975 la fine del boom economico post bellico (Golden Age o Trente Glorieuses). L’analisi era giusta, ma fece del 1975 l’anno fatidico del crollo e della rivoluzione. Diffuse una profezia millenaria che, nel giro di pochi anni, si dissolse, dopo aver mandato allo sbaraglio compagne e compagni, pur senza mortiferi esiti, questa volta.(4)
A questo proposito, si rivela superficiale la critica di Paolo al bordighismo – più che a Bordiga – (pp. 179-191), poiché essa resta, appunto, alla superficie del fenomeno, ancorché immaginifico, senza sondarne i meandri, dove fermentavano umori squisitamente soggettivisti e volontaristici (il leninismo!), come emblematicamente dimostra la teoria-prassi di Rivoluzione Comunista, antesignana dei futuri sviluppi, di cui parla il citato Lalbat.

Parlando della crisi del modo di produzione capitalistico, alla fine degli anni Settanta, essa era ai suoi primi passi. La sua evoluzione sarebbe stata assai contorta (e imprevista) e, solo nel nuovo millennio, avrebbe preso forma e sostanza. Tuttavia, il suo studio richiedeva attenzione e capacità analitiche, evitando improvvisazioni e facili analogie con un passato ormai remoto, come fecero i seguaci di una sciocca invarianza.

Non ci voleva però il cervello di Marx per vedere che, nel mondo capitalistico, il blocco sovietico rappre- sentava una sorta di limbo, in cui gli effetti della crisi si manifestavano in maniera distorta, invischiandosi in una formazione economica ibrida, né capitalista né extra capitalista (non certo socialista). Sarebbero esplosi nel 1989, con il crollo del muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell’URSS. Al tempo stesso, si dissolvevano quelle mitologie che, per settant’anni, avevano visto nel sistema sovietico un sogno o un incubo. Cadendo, in entrambi i casi, in una visione assolutamente fantastica.(5)

Certo, è il senno di poi (di cui son piene le fosse) che mi consente di avanzare queste osservazioni con le mie critiche ai testi di Leonardo e di Paolo. Le ritengo una doverosa premessa, grazie alla quale posso ora riconoscere il merito di quell’esperienza: il luddismo.

CONTRO IL LAVORO

Le temps payé ne reviene plus.
RAOUL VANEIGEM, La vie s’écoule, la vie s’enfuit.
(1974).

Ci volle un bel coraggio in quegli anni per resuscitare il capitano Ludd!
Un coraggio generato da quella critica radicale che metteva in discussione tutte le «verità» del mezzo secolo precedente, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, madre di tutte le moderne ideologie lavoriste … Nonostante Paul Lafargue (genero di Marx), nel 1887, avavesseeva indicato la via, col suo Diritto all’ozio (preziosa operetta che I luddisti milanesi diffusero, se ben ricordo).(6)

La critica, o meglio, le armi della critica, si erano forgiate in Russia nel 1917-1921, con la maknovcina e l’insurrezione di Kronštadt, in Germania nel 1919 con gli spartachisti, in Spagna nel 1936-1937 con gli Amici di Durruti, con gli insorti di Berlino nel 1953 e di Budapest nel 1956 … e con altre mille grandi e piccole ri- bellioni, sparse ai quattro angoli della Terra, non ultima, la nostra Italia.

La repressione, nelle sue forme democratiche fasciste o staliniste, contribuì a soffocare le ribellioni ma il colpo di grazia lo dette la ripresa del ciclo di accumulazione capitalistico. In quelle circostanze, la critica, abbandonate le armi, non si spinse a toccare il sacro tabù: il lavoro. Gli stessi conciliarismi, cui Leonardo e Paolo si richiamano, restarono legati alla sacralità del lavoro.(7)

Chi, ancora una volta, si spinse oltre, fu Bordiga. Nel 1952, con il Programma rivoluzionario immediato, proponeva un progetto di desviluppo, del tutto con- tra-corrente, in un periodo in cui l’Europa (e, di riflesso, buona parte del mondo) era alle prese con la ricostruzione post-bellica. Soprattutto, Bordiga rompeva con quella visione di progresso e sviluppo, compendiata nella triste frase di Lenin: il socialismo è il soviet più l’elettrificazione delle campagne.

In poche parole, Lenin e i suoi pur aspri critici consiliaristi restavano nella logica della gestione dello stato di cose presente, mentre Bordiga (con Marx ed Engels) ne sosteneva l’abolizione.

Ci sarebbe da colmare un’altra lacuna: il gruppo Krisis e Robert Kurz che, in tempi più recenti (anni Novanta), si sono espressi contro il lavoro.(8)
La storia, tutta italiana (nella nascita e nella morte), di Ludd è quindi di grande pregnanza. Il suo significato intimo sarebbe stato compreso solo in anni più recenti. Grazie all’azione tellurica della Vecchia Talpa, la crisi, cieca compagna del modo di produzione capitalistico.

Benché il messaggio fosse ancora forte e chiaro, il Movimento del Settantasette lo recepì in modo assolutamente distorto, come giustamente afferma Paolo (p. 106). Il rifiuto del lavoro fu più di forma che di sostanza, in ultima analisi, privilegiò l’arrangiamento individuale, favorendo, proprio nella fase cruciale delle ristrutturazioni e della deindustrializzazione (fine anni Settanta), le dimissioni concordate, attraverso laute buonuscite Alimentando demenziali teorie, come l’autovalorizzazione negriana o il piccolo è bello, anticamera del berlusconismo e del leghismo.(9) Ma questa è un’altra storia. Ritorniamo nella nostra valle di lacrime…

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NO FUTURE? MAGARI!

Avanzano alla solita vecchia maniera? E finiranno battuti alla solita vecchi maniera.
Wellington, Waterloo, 18 giugno 1815 (cit. p. 88).

Il futuro che ci attende non è certo radioso. Nella sua lunga digressione sugli anni Settanta, Paolo sciorina una lun- ga serie di citazioni, quasi tutte apprezzabili e tutte suggestive,(10) che, tuttavia, sfiorando mille ipotesi, finiscono per dissolversi nella notte hegeliana (in cui tutti i gatti sono bigi). Un limbo, in cui i contorni di classe perdono consi-stenza, eludendo il fatto che quei contorni non sono tracciati dai senza risorse (o proletari), bensì dai padroni (o borghesi), ovvero da coloro che vivono sfruttando il lavoro (la forza lavoro) di chi non ha altro da vendere per campare. E sono i padroni che creano la lotta di classe. I proletari ne farebbero volentieri a meno.

La compra-vendita della forza lavoro, per quanto truffaldina (come Marx spiegò), aveva in origine una sua pur discutibile giustificazione, poiché si manifestava nella produzione di merci con un valore d’uso, ovvero beni di consumo, destinati (in parte) alla produzione e riprodu- zione degli umani (è il mercato, bellezza!).

Ma ormai, da circa un ventennio, quella finalità è appassita, facendo fiorire la pura estorsione di plusvalore, denaro destinato in massima parte (se non esclusivamente) alla speculazione finanziaria: denaro che crea denaro. Il capitalismo diventa il serpente infernale che si mangia la coda, generando turbolenza ora più ora meno violente, con effetti dagli imprevedibili esiti catastrofici.

Senza attendere la catastrofe, si vede chiaramente che il lavoro è inessenziale, nella forma attualmente asasunta dal sistema economico capitalistico. Ed è altresì evidente che è assolutamente demenziale (e autolesionistico) chiedere lavoro, occupazione, investimenti produttivi … È comunque un lavoro mal pagato e svolto in condizioni sempre più precarie, e pericolose.

Il lavoro uccide! È la conferma di un sordido decline che smentisce clamorosamente decenni di consolatorie previsioni, condite con modesti miglioramenti (almeno in Occidente), il più delle volte pagati a caro prezzo. Certamente, viviamo una situazione quanto mai dinamica e mutevole, in cui richiamarsi a un passato ormai remoto porta in un vicolo cieco. Ciò non toglie che le esperienze del passato, vissute come fughe in avanti rispetto al loro tempo, segnano passaggi su cui oggi è bene ritornare, ma solo per correre poi più veloci.

Tra le «fughe in avanti», mi piace ricordare, oltre agli estemporanei luddisti italiani, i soviet russi del 1905 e del 1917-1921, le comunità anarchiche nell’Ucraina della maknovcina, i consigli operai in Germania nel 1918-1921, i Comitati della CNT in Catalogna e in Aragona nel 1936 e tanti altri esempi cui ho accennato, senza escludere con eccesso di severità libresca più recenti esperienze di democrazia diretta, come le comuni curde del Rojava.

Sotto vesti molto diverse (a volte contrastanti), il minimo comun denominatore è la formazione di co- munità di lotta, in cui i senza risorse non affidano il comunismo (il loro/nostro destino) a un futuro remoto e vago, ma lo vivono e lo fanno, giorno per giorno.

Altrimenti, sarà l’orrore senza fine, da cui solo una fine orrenda potrà liberarci .

DINO ERBA, MILANO, 21 giugno 2018.

 

PS. Il libro costa 25€. È tanto? Sicuro! Ma teniamo presente che bande di traffichini stanno spacciando a caro prezzo i vari testi presenti nella sua parte documentaria. Tagliare l’erba sotto i piedi ai trafficanti di rivoluzioni, è un merito!

NOTE

1. Riferimenti a caldo erano sul bordighismo li fece Barrot, nel suo articolo l’Ideologia ultra sinistra (1969), ri- portato a p. 366. Pubblicato l’anno seguente dalle Edizioni La Vecchia Talpa, di Napoli.

2. Nella bibliografia curata da Leonardo Lippolis (p. 62), è una grossa lacuna l’assenza di: GILLES DAUVÉ [Jean Barrot], Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, A cura di Fabrizio Bernardi, Dino Erba, Antonio Pagliarone, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010. I contributi presenti nel libro propongono uno scenario, sicuramente più ampio, e quindi assai più sintetico, cercando tuttavia di intrecciare i vari fili teorico-politici. Sforzandosi, altresì, di spiegare la genesi e l’evoluzione (nonché l’involuzione) della critica radicale nel corso del Novecento.

3. Parlo di critica dell’economia politica, non di generici studi economici in cui, per esempio, si distinguono i ragionieri di «Lotta Comunista».

4. Vedi: BENJAMIN LALBAT, Les bordiguistes sans Bordiga. Contribution à une histoire des héritiers de la,Gauche communiste italienne en France. Des racines de Mai 68 à l’explosion du PCI (1967-1982), Université d’Aix-Marseille, master 2 (dir.: Isabelle Renaudet), septembre 2014.

5. Vedi la mia critica al mito della potenza sovietica: DINO ERBA, La rivoluzione russa. Cent’anni di equivoci. Marx, i marxisti e i costruttori del socialismo, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017, p. 36.

6. Ricordo la più recente edizione: PAUL LAFARGUE, Il diritto all’ozio. La religione del capitale, A cura di Lanfranco Binni, Il Ponte Editore, Firenze, 2015. Binni tradusse l’edizione pubblicata nel 1977 dalle edizioni 10/16 di Milano. Ho evidenziato i meriti di Lafargue in: Il sole nonsorge più a Ovest. Significati e forme delle rivoluzioni al tempo della Grande Crisi. Riflettendo con Marx: razze, etnie, genere e l’immancabile sfruttamento operaio, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017, pp. 44 e ss.

7. Mi riferisco a: GRUPPO COMUNISTI INTERNAZIONALI OLANDESI (G.I.K.H), 1930: Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista, Introduzione di Paul Mattick, Jaca Book, Milano, 1974. Per una recente esposizione critica, vedi: VISCONTE GRISi, Pi nificazione dal basso e consigli operai. I principi fondamentali dei GIKH, «Collegamenti Wobbly», Supplemento, n. 1, gennaio-giugno 1995.

8. GRUPPO KRISIS, Manifesto contro il lavoro, Derive/Approdi, Roma, 2003. Ne parlo criticamente in: Il sole non sorge più a Ovest, op. cit., p. 131. La critica del lavoro ha ormai numerosi sostenitori, ricordo: ALBERTO TOGNOLA, Lavoro? No grazie! Ovvero, la vita è altrove, Edizioni La Baronata, Lugano, 2010. PHILIPPE GODARD, Contro il lavoro, Prefazione di Andrea Staid, Elèuthera, Milano, 2011.

9. Per una più ampia esposizione, vedi: VISCONTE GRISi, Il Movimento del 77 in Italia, sid (ma 2017).

10. Volendo scremare e arricchire il florilegio di autori citati da Paolo, toglierei il lamentoso cattocomunista Pasolini e l’impunito stalinista Aragon, e aggiungerei Guido Morselli, col suo Il comunista, pubblicato postumo da Adelphi, nel 1976: una svergognante denuncia dell’apologia del lavoro (e del partitone togliattiano). Scritto nel 1965, Il comunista fu rifiutato dall’Einaudi, per bocca di Italo Calvino, assistente al soglio di papa Giulio (per grazia di Mosca). Da buon gesuita, Calvino motivò il rifiuto, scrivendo a Morselli che: «dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo “inventare”». Chiosando infine: «Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio» (Carteggio – Suo Italo Calvino, 9 Ottobre ’65).

Anselm Jappe – Ludd, o il Sessantotto trascendente

Tra il 1968 e il 1978 l’Italia, com’è noto, ha vissuto la più lunga stagione contestataria di tutti i paesi occidentali in quel periodo, mentre altrove “il Sessantotto” era generalmente tanto intenso quanto breve. Era anche l’unico paese dove le proteste videro una sostanziale partecipazione operaia e popolare. Allo stesso tempo, l’Italia ha dato un’elaborazione teorica tutta sua di quegli eventi e della loro novità: l’operaismo, le cui propaggini si estendono fino a oggi. In retrospettiva, l’operaismo e le organizzazioni da esso influenzate (Potere Operaio, Lotta continua, poi Autonomia operaia) sembravano occupare tutto lo spazio a sinistra del PCI, vista anche la scarsa importanza che ebbero maoisti e trotzkisti, diversamente dagli altri paesi europei. In effetti, esiste ormai una ricca letteratura sull’operaismo. Tuttavia, a margine c’erano altre correnti che si volevano più radicali e che si ispiravano soprattutto ai situazionisti francesi e alla tradizione anti-leninista dei Consigli operai. Questa piccola area di “comunisti eretici”, che spiccava più per lucidità che per impatto immediato sulle lotte sociali, va sotto il nome di “Critica radicale”. Il suo raggruppamento più importante fu Ludd. Benché sia esistito per appena un anno, dal 1969 al 1970, coinvolgendo solo alcune decine di persone, soprattutto a Genova e Milano, e ne rimangano essenzialmente tre bollettini e alcuni volantini, Ludd è diventato nel corso del tempo una “leggenda” per quegli ambienti della critica sociale che si richiamano alle idee situazioniste, oggi forse più numerosi che quarant’anni fa.

Per la prima volta, una larga documentazione su Ludd e i suoi “precursori” è disponibile su carta stampata (il materiale era già disponibile sul sito nelvento.net). Un’utile introduzione di Leonardo Lippolis spiega il contesto storico. Quasi metà del libro è occupato da un saggio di 200 pagine di Paolo Ranieri, ex membro del gruppo, che mescola ricordi personali con commenti allo stato attuale del mondo, offrendo informazioni preziose, ma anche alcuni deplorevoli scivoloni. L’interesse principale risiede nella parte documentaria: documenti (soprattutto volantini) del Circolo Rosa Luxemburg, della Lega degli operai e degli studenti e del Comitato d’azione di lettere che si sono succeduti a Genova, nonché i tre bollettini di Ludd e i suoi volantini, con in più alcuni documenti interni.

Gli antecedenti si trovano in quei circoli che a partire dal 1960 si collocavano alla sinistra del PCI, dal quale si distanziavano sempre più nettamente: dapprima i Quaderni rossi di Panzieri, poi Classe operaia dove Antonio Negri e Mario Tronti gettavano le basi del futuro operaismo. Di fronte a quello che consideravano come una rottura ancora insufficiente con il leninismo, alcuni collaboratori di Classe operaia come Gianfranco Faina e Riccardo d’Este, futuri protagonisti di Ludd, ne uscivano per fondare il Circolo Rosa Luxemburg a Genova. Scoprivano la rivista francese Socialisme ou Barbarie (che aveva appena cessato di uscire), la cui figura centrale era Cornelius Castoriadis e che costituiva la punta più avanzata in Europa di una critica del leninismo e del progetto di un’“autonomia operaia” di fronte ai partiti e sindacati. A partire dalla fine del 1967, la situazione italiana si radicalizza rapidamente per culminare nell’”autunno caldo” del 1969: non solo nelle università, ma anche nelle fabbriche. La sinistra “extraparlamentare” passò da ultra-minoritaria a essere l’area più in sintonia con delle lotte che sfuggivano al controllo del PCI e della CGIL, e anche alle categorie interpretative tradizionali. Allo stesso tempo, il Maggio francese elettrizzò gli animi e comportò una maggiore diffusione delle tesi situazioniste, soprattutto la “critica della vita quotidiana”. 

Dai vari contatti nacque nell’estate 1969 “Ludd – Consigli proletari” in una riunione al Film Studio di Roma. Ebbe almeno quaranta partecipanti distribuiti tra Torino, Genova, Roma, Milano e Trento, tra cui si possono ricordare, oltre a Faina e d’Este, Giorgio Cesarano, Pier Paolo Poggio, Mario Lippolis, Piero Coppo, Eddie Ginosa, ma anche Mario Perniola (tutti maschi, come ricorda Ranieri nella sua introduzione che contiene anche molti spunti autocritici). Una sezione italiana dell’Internazionale situazionista si era già formata all’inizio di quell’anno e mantenne altezzosamente le distanze. Nello stesso anno si formavano anche Potere operaio e Lotta continua – oggetti di forte polemiche da parte di Ludd che li accusava di voler dirigere nuovamente dall’esterno la spontaneità proletaria, di avere dei “capi” e di essere disponibili a una “modernizzazione” o “democratizzazione” del capitalismo. Ludd invece mirava a una “rivoluzione totale” che includeva anche una rottura esistenziale a livello individuale con il modo di vita vigente: la rivoluzione della vita quotidiana.

Il nome era già un programma: il movimento dei “luddisti”, gli operai inglesi che all’inizio del Ottocento distruggevano i telai meccanici, passava nella tradizione marxista come l’espressione di una tendenza infantile o reazionaria del nascente movimento operaio. Il libro dello storico inglese E. P. Thompson sulla formazione della classe operaia inglese, tradotto in italiano nel 1969, ne aveva invece rivelato l’importanza. Aveva ispirato il nome ai giovani rivoluzionari italiani. In generale, il loro orizzonte si muoveva tra marxismo e anarchismo, con uno spiccato interesse per il “consiliarismo”: quella tendenza eretica del movimento operaio che si rifà ai primi soviet e ai consigli durante la rivoluzione tedesca del 1919 nonché alle organizzazioni che ne continuavano il programma tra le due guerre, soprattutto in Germania e Olanda. In Italia questa tradizione di autoorganizzazione operaia fuori dai partiti e sindacati era del tutto assente e veniva scoperta attraverso la Francia. Divenne per Ludd (come per l’I. S.) uno spartiacque nella polemica contro l’operaismo nascente e le sue volontà “politiciste”. 

Ludd intervenne con volantini spesso sarcastici e improntati al pamphlet situazionista “Della miseria nell’ambito studentesco”, tra cui una progettata contestazione del festival di Sanremo. Ma il più notevole fu il volantino “Bombe, sangue, capitale” distribuito qualche settimana dopo la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e dove Ludd indicava – primi a farlo dopo il volantino “Il Reichstag brucia” della sezione italiana dell’I.S. – nello Stato il mandante della strage, in un momento in cui anche a sinistra regnava la più grande confusione.

Ma quello che può interessare maggiormente il lettore di oggi, perché meno legato al solo clima di quell’epoca, sono alcuni aspetti degli articoli più teorici del bollettino. Vi si ritrova anzitutto il rifiuto del lavoro e dell’”ideologia”. Gli autori, che si rivendicano «estremisti», constatano che ormai il proletariato è una categoria ben più vasta dei soli operai: l’alienazione e lo spossessamento si estendono alla vita intera, non solo al lavoro, sotto forma di una “colonizzazione della vita quotidiana”. Notano che ormai molti operai agiscono in modo del tutto diverso dai canoni del movimento operaio tradizionale. Ludd fa allora un elogio costante delle “lotte anti-economiche” del nuovo proletariato, del “sabotaggio”, della negazione tanto dell’economia quanto della politica, in nome del rifiuto dei “feticci della merce e del capitale”. La lotta di classe rimane un argomento onnipresente, ma assume i tratti di uno scontro generalizzato tra chi difende il modo capitalista di vivere e chi lo vuole abolire. Non la trasformazione graduale dell’esistente è l’orizzonte, ma la sua distruzione sotto forma di un’insurrezione, rifiutando tutte le mediazioni istituzionali. Ludd polemizza costantemente contro il militantismo e lo spirito di sacrificio: nell’azione rivoluzionaria, mezzo e fine, vita personale e azione collettiva devono coincidere (naturalmente, come ricorda l’introduzione, i membri di Ludd trovano grandi difficoltà a vivere veramente questa rottura e ne derivano forti frustrazioni e tensioni nel gruppo). 

Un’altra preoccupazione costante è l’opera dei “recuperatori” (il Movimento studentesco di Mario Capanna è uno dei loro bersagli preferiti) che vogliono canalizzare l’energia negativa del proletariato verso delle riforme, promuovendo al contempo il proprio statuto di leader – non si può negare un grande valore profetico a questi attacchi! Altre volte, le critiche appaiono alquanto ingenerose, per esempio quando; parlando di psichiatria, mettono Franco Basaglia e Ronald Laing nel novero dei “rivoluzionari parziali” che non fanno altro che rafforzare il sistema.

Pur continuando a guardare all’operaio di fabbrica, Ludd elogia le nuove forme di opposizione al capitalismo: le rivolte dei neri negli USA, il sabotaggio, i saccheggi, l’assenteismo, l’illegalità, e anche la criminalità, la malattia mentale, la marginalizzazione. Come i situazionisti italiani, si entusiasmano per il sollevamento popolare di Battipaglia nell’aprile del ’69. Nel bollettino numero 3 (gennaio 1970), Piero Coppo, futuro antropologo e etnopsichiatra, espone una critica della medicina e della psichiatria come strumenti di dominio che critica la stessa antipsichiatria. Ma nonostante il nome, in Ludd si trova appena un inizio di una critica approfondita della scienza, della tecnologia e del regno degli esperti. 

Più sorprendente, vista la sua evoluzione successiva, è la partecipazione di Mario Perniola (che era stato in contatto diretto con i situazionisti francesi tra il ’66 e il ’69); il suo contributo sulla “creatività generalizzata” anticipa il suo libro L’alienazione artistica.

Un particolare rilievo assume la figura di Giorgio Cesarano. Aveva già quarant’anni nel 1968, era poeta e faceva parte del mondo culturale milanese. La sua partecipazione agli eventi del ’68 lo scosse durevolmente (la sua elaborazione letteraria di quegli eventi sotto forma di diario, pubblicata nello stesso anno come I giorni del dissenso e La notte delle barricate, è stata riproposta nel 2018 dall’editore Castelvecchi, che ha ugualmente pubblicato uno studio di Neil Novello su Cesarano dal titoloL’oracolo senza enigma). Un suo saggio intitolato “L’utopia capitalista. Tattica e strategia del capitalismo avanzato nelle sue linee di tendenza” apparve nel terzo bollettino. In uno stile a volte pesante (in generale bisogna dire che a Ludd mancava lo stile brillante, caustico e spesso divertente dell’I. S.) vi espone delle idee sviluppate da lui negli anni successivi in Apocalisse e rivoluzione (Dedalo, 1973), Manuale di sopravvivenza (Dedalo 1974) e nell’incompiuta Critica dell’utopia capitale (Colibrì, 1993). Vi espone l’idea di una “rivoluzione biologica” che a partire dal corpo si opporrà a tutte le alienazioni, perfino al linguaggio. 

Nel saggio su Ludd, Cesarano sottolinea il ruolo del credito: ormai è socializzato, cioè viene concesso ai proletari, e facilita l’invasione della merce in tutto lo spazio sociale. Lo sfruttamento non si limita più allora alla vendita della forza-lavoro, ma invade tutto lo spazio e tutto il tempo. A causa del debito il proletario è ancora più in ostaggio dei dominanti. Scrive: “Ciò che in realtà l’individuo consuma nella società capitalista è sempre e solo merce e cioè capitale, lavoro morto, organizzato in modo da riprodursi e da accrescersi, e che si riproduce e si accresce proprio nella misura in cui viene consumato”. L’accento messo sulla “merce” come categoria centrale della critica sociale era poi destinato a un importante futuro. La lotta di classe non si presenta infatti più nei termini tradizionali: “Il ribaltamento ideologico operato dai sociologi ‘operaisti’ di ridurre la portata del processo di proletarizzazione universale all’aspetto di una ‘operaizzazione’ di nuovi ceti, da affrontare nei termini di un’analisi sociologica di ‘ricomposizione di classe’, si rivela ormai per quello che è: l’ultimo trucco, l’ultima mistificazione per nascondere al proletariato se stesso”. Diventare proletari non significa dunque più diventare operai. Riprendendo spunti situazionisti, Cesarano afferma che il “proletariato non è più identificabile in entità sociali parcellizzate e statiche – ma poiché ‘o è rivoluzionario o è nulla’ è lo stesso movimento che tende verso la totalità”. (Una definizione talmente “soggettivista” del proletariato comporta, è chiaro, ugualmente dei problemi – ma aveva un’importante funzione in quel momento storico in cui l’operaio di fabbrica cominciava da un lato a perdere la sua centralità, e dall’altro il suo aspetto necessariamente rivoluzionario). Infatti, Cesarano propone di abbandonare “l’immobile personificazione del proletariato” e di valorizzare l’”eterogeneità delle masse che colmano i ghetti dei disadattati, le carceri, i manicomi”, di tutti coloro cioè che non sopportano più le condizioni di vita che vengono loro imposte. Ma questo significa – altra idea assai importante – che “quando la classe tende all’universale e universale si fa la proletarizzazione imposta dallo sviluppo capitalistico, il fronte della lotta di classe passa ormai all’interno delle persone”: se (quasi) ognuno può essere un po’ proletario, in cambio ognuno partecipa anche al dominio e ne riproduce i meccanismi (una conseguenza era, nei gruppi radicali, la ricerca spesso ossessiva e denunciatoria di atteggiamenti “borghesi” in se stessi o negli altri membri del gruppo). 

Cesarano articola la critica dell’ideologia che sottrae il significato a ogni atto della vita e del lavoro, ma anche della scienza che perde di vista la totalità. Bisogna far cadere tutta la divisione tra struttura e sovrastruttura (ideologia). Lui oppone, in modo poco dialettico, a dire il vero, il valore d’uso come l’aspetto vivo, da rivendicare, al valore di scambio come aspetto mortifero della produzione e si spinge molto lontano nella ricerca delle origini ultime dell’alienazione, in termini che ricordano talvolta la Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno: le trova nella preistoria, nel linguaggio e nella natura. “Prima che materializzarsi nel denaro, il valore di scambio si materializza, sacralizzato, nel sacrificio, nel mito, nel linguaggio come accumulazione seriale di significati”. La colonizzazione dei significati conta tanto quanto lo sfruttamento economico: “Qualsiasi forma di schiavitù, prima che misurabile in termini di quantificazione (termini di economia), è sempre qualificabile in termini di subordinazione dell’attività umana allo stato delle cose; così come qualsiasi forma di dominio, prima che quantificabile in termini di accumulazione di valore, è qualificabile in termini di gestione dei significati cui fa capo lo stato delle cose”. È allora logico che per Cesarano si deve arrivare alla “distruzione definitiva del regno delle cose” (qualunque cosa questo possa significare), ad opera della “spontaneità proletaria” fortemente elogiata.

Questo tentativo di rintracciare le cause della non-vita contemporanea fino alla sua dimensione più profonda, biologica e linguistica, porta Cesarano a una febbrile attività di scrittura negli anni successivi, ma anche al suo tragico suicidio nel 1975.

Nell’estate del 1970 Ludd decide di sciogliersi, senza drammi. L’incapacità di andare oltre la teoria e di implicarsi realmente nelle lotte collettive era uno dei motivi messi in avanti. I suoi membri più attivi continuano quasi tutti la critica sociale, ognuno a modo suo, e evitano le compromissioni con il sistema capitalistico cosi come con le organizzazioni “recuperatrici”. 

Che cosa se ne può ritenere oggi, a parte il tassello che completa un quadro storico? Il Sessantotto mondiale, questa insurrezione contro il “vecchio mondo”, appare in retrospettiva ben diverso da quello che erano le intenzioni dei suoi protagonisti: ha prodotto non l’abbattimento della società borghese e capitalista, ma la sua modernizzazione. I contestatari hanno aiutato, volenti o nolenti, la società della merce a liberarsi di una serie di anacronismi e di superstrutture obsolete e incrostate, laddove i suoi stessi gestori non erano in grado di operare un tale aggiornamento. Questo fatto è ormai risaputo. Molti si sono accontentati dei cambiamenti – d’altronde grandi – che il “capitalismo progressista” ha introdotto negli anni settanta in tutte le sfere sociali. Ma come in ogni rivoluzione, c’erano stati i momenti dell’”assalto al cielo” in cui sembrava possibile di volere tutto, non soltanto delle briciole. La poesia, ma anche una parte dell’importanza perdurante di questi picchi della storia risiede in quella ricerca dell’assoluto, che sia realizzabile o no. Ludd, per quanto minoritario, e con tutti i suoi limiti, faceva parte di questi “momenti trascendenti” della storia di cui possono nutrirsi i ribelli ancora per diverse generazioni.

Interessante, utile e articolata recensione. Rimane la curiosità: quali saranno i deplorevoli scivoloni cui si allude nei primi paragrafi? Saperlo, potrebbe consentire un efficace dibattito che, così, rimanendo all’oscuro, risulta impossibile. (Paolo Ranieri, 4 febbraio 2019)

Quali sono gli scivoloni nell’introduzione di Ranieri? Il più grave è la difesa di Paul Rassinier che sarebbe stato “calunniato”. Bisogna sapere che Paul Rassinier (1906-1967), presunto anarchico, è stato il “padre” del negazionismo “di sinistra” in Francia, cioè della negazione della realtà storica della Shoah. E’ stato l’ispiratore di Robert Faurisson. Se poi si leggono sull’ultima pagina dell’introduzione delle frasi sul presunto vittimismo degli ebrei, ci si rende conto che una parte dell’ultrasinistra non ha mai fatto i conti con il negazionismo, cui avevano partecipato diversi suoi esponenti, né con l’antisemitismo che ne costituiva la base. Se questo non permette di gettare l’obbrobrio su tutto quello che ha fatto l’ultrasinistra francese e italiana prima della fine degli anni settanta, dovrebbe però essere oggetto di una critica più che vigile.
Un altro scivolone, di un genere ben diverso, è la qualificazione di “Il Reichstag brucia”, lo storico volantino dei situazionisti italiani distribuito subito dopo le bombe di Piazza Fontana, come ambiguo e ipocrita e la qualificazione delle prese di posizione successive di Gianfranco Sanguinetti in Del terrorismo e dello Stato (1980) come espressione di un “delirio cospirazionista”. Tutto questo sente troppo il regolamento di vecchi conti.
(Anselm Jappe, 8 febbraio 2019)