Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 25.

L’OPERA È DIVISA IN TRE PARTI

La prima, L’occupazione definitiva del nostro tempo, di Leonardo Lippolis, è un excursus storico (persone, pubblicazioni, sigle, iniziative ecc. ecc.), succinto (55 pagine) ma sostanzialmente esauriente, a parte alcune lacune che segnalo poi.

La seconda parte, Vecchie favole intorno a un giovane fuoco, di Paolo Ranieri, è una lunga (192 pagine.) rifles- sione «politica», seppure nel solco dell’antipolitica.

La terza parte (circa metà del volume), raccoglie i documenti: giornali, volantini, manifesti che offrono inedite testimonianze sugli aventi e il clima di quegli anni. Il libro è il primo di una trilogia che tocca i primi anni Ottanta del Novecento, composta da: Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e oltre.

UNA FUGA IN AVANTI?

Per gli specialisti delle fughe all’indietro… Cit. in MANOLO MORLACCHI, La fuga in avanti.
La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X – Cox18Books, Milano, 2007.

A oltre mezzo secolo, il libro getta vividi bagliori su un’epoca che, in Italia, visse una stagione del tutto eccentrica nel contesto internazionale, sia riguardo alla cosiddetta contestazione studentesca sia riguardo al ciclo di lotte operaie che attraversò il decennio 1967-1977.

Certamente, Ludd fu una fuga in avanti, non solo rispetto al grigio clima cultural-politico italiano ma anche rispetto a quello internazionale, apparentemente più effervescente. Ma, forse, solo apparentemente.
Le sue argomentazioni possono oggi sembrare ingenue, a volte ambigue (mi riferisco alla spettacolare invo- luzione del situazionismo, su cui stendo un velo pietoso) . Erano suggestioni eversive che nascevano al culmine di una fase di espansione economica che, presto, avrebbe conosciuto un inesorabile declino.

Anticiparono temi che, in Italia, sarebbero stati affrontati nel decennio successivo, quando le sinistre comuniste ebbero un quarto d’ora di notorietà. Fu breve, ma fu ricco di iniziative (quasi esclusivamente edi- toriali), grazie alle quali, avvenne la mia crescita torica e politica. Fu una coraggiosa provocazione, di fronte al ritorno all’ovile dei più.

MA PRIMA, COME ERAVAMO?

Era un piccolo mondo e si teneva per mano. Era un mondo difficile, lontano oggi a noi … UMBERTO SABA, cit. a p. 67.

Dalla poetica di Saba, passo alla più prosaica realtà.

Nella dinamica del boom economico italiano dei primi anni Sessanta, si incontravano e si scontravano i secolari particolarismi cultural-politici, i recenti squilibri strutturali (città-campagna, Nord/Sud, flussi migratori interni) e le spinte modernizzatrici del capitalismo nostrano (in primis Olivetti, Fiat, Pirelli). A condire questo già saporito menu, dall’estero, giungevano nuovi stimoli culturalpolitici che contribuivano a ravvivare, se non a rompere, un clima ormai stantio, quando anche la Chiesa, con papa Giovanni, si apriva al «nuovo».

Ma cos’era il «nuovo» per l’Italia di allora? In buona sostanza, era il tentativo di coniugare l’American dream con il Vento dell’Est, ovvero un capitalismo competitivo ma seducente, grazie ai ritmi del rock, e un socialismo rassicurante, un po’ noioso, ma tecnologicamente efficiente, grazie allo Sputnik.

Fu un’impossibile quadratura del cerchio che visse una sua breve stagione, alimentando sogni e illusioni tra i giovani (e tra chi non accettava un meschino futuro). Nell’euforico clima di quegli anni, costoro, chi più chi meno, cercarono di cavalcare la tigre, dando vita alla critica radicale, come sarebbe stata definita, di cui il libro ci parla e che, ripeto, non ebbe apprezzabili riscontri fuori dall’Italia. L’Italia, pur recependo gli echi di quanto avveniva in altri Paesi, non li restituì. Per quale motivo?

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LA TRISTE SCIENZA DI TOGLIATTI E LA CRITICA DELLECONOMIA POLITICA DI MARX

Per quanto radicale, la critica scontava in Italia il retaggio di una cultura umanistica che, nelle sue più recenti espressioni – quella liberale di Benedetto Croce e quella fascista di Giovanni Gentile – aveva tenuto ben divise «arte e scienza». Non stupisce quindi che politici (NON politicanti) italiani, anche sovversivi (tranne le solite encomiabili eccezioni) abbiano sempre guardato con sospetto l’economia (la «triste scienza», secondo Palmiro Togliatti, massimo guru del pensiero nazional-popolare italiano).
Un simile retaggio affiora prepotente anche dalle considerazioni di Paolo Ranieri (p. 88). E non per nulla, Leonardo Lippolis, nel suo excursus, pur girandoci intorno, non parla della Sinistra comunista «italiana» (il Bordiga! Innominato, innominabile)(1) che, in quel periodo, si distinse per le sue analisi sull’evoluzione del ciclo economico postbellico. Sono studi quasi unici, anche a livello internazionale.(2) A onor del vero, anche la Sinistra «tedesco-olandese» (o consiliare), più volte evocata, con Anton Pannekoek e con Paul Mattick, si dedicò alla critica dell’economia politica. Perché di critica dell’economia politica bisogna parlare. Ed è questa la grande assente. Fu assente dai dibattiti e dai confronti di quegli anni e, anche oggi, la critica dell’economia politi- ca mostra una certa latitanza (tranne le solite encomiabili eccezioni).(3)

Per uscire da questo impasse teorico-politico, e abbordare la critica dell’economia politica, le premesse c’erano. Nel coro della critica radicale, c’erano molte voci, anche stonate, pronte a ricevere il la e animare nuove pulsioni.

OGGETTIVO O SOGGETTIVO? QUESTO IL DILEMMA!

Insomma, il vecchio mondo che già stava tornando attraverso i vari gruppi della sinistra extraparlamentare prese definitivamente il sopravvento.
Leonardo Lippolis, p. 60.

Fu la bomba di piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969) a segnare la battuta delle diverse ma congruenti espressioni della critica radicale. Trascorse però un decennio prima che fosse posta la «pietra tombale» su quanto essa, in tre anni, aveva disordinatamente e gioiosamente seminato.
Spiegare a caldo le sconfitte è come arrampicarsi sugli specchi. Soprattutto, in assenza di quei criteri che so- lo la critica dell’economia politica può offrire. Se usati cum grano salis

Nel milieu radicale, le spiegazioni oscillarono tra l’enfatizzazione di aspetti soggettivi, la trionfante controrivoluzione (per es. Gianfranco Sanguinetti) e l’enfatizzazione di aspetti oggettivi, l’antropomorfizzazione del capitale (Jacques Camatte e Giorgio Cesarano). In un caso e nell’altro, c’era del giusto… Prevalse la visione no future. Per alcuni fu la morte fisica (ricevuta o cercata), per i più fu la morte intellettual-politica (l’omologazione).
Ma anche chi si piccava di usare la critica dell’economia politica mostrò di essere ancora succubo di ideo- logie del passato che ottenebravano le armi della critica.

La Sinistra comunista «italiana», richiamandosi agli studi condotti con Amadeo Bordiga ancora vivente, vide nel 1975 la fine del boom economico post bellico (Golden Age o Trente Glorieuses). L’analisi era giusta, ma fece del 1975 l’anno fatidico del crollo e della rivoluzione. Diffuse una profezia millenaria che, nel giro di pochi anni, si dissolse, dopo aver mandato allo sbaraglio compagne e compagni, pur senza mortiferi esiti, questa volta.(4)
A questo proposito, si rivela superficiale la critica di Paolo al bordighismo – più che a Bordiga – (pp. 179-191), poiché essa resta, appunto, alla superficie del fenomeno, ancorché immaginifico, senza sondarne i meandri, dove fermentavano umori squisitamente soggettivisti e volontaristici (il leninismo!), come emblematicamente dimostra la teoria-prassi di Rivoluzione Comunista, antesignana dei futuri sviluppi, di cui parla il citato Lalbat.

Parlando della crisi del modo di produzione capitalistico, alla fine degli anni Settanta, essa era ai suoi primi passi. La sua evoluzione sarebbe stata assai contorta (e imprevista) e, solo nel nuovo millennio, avrebbe preso forma e sostanza. Tuttavia, il suo studio richiedeva attenzione e capacità analitiche, evitando improvvisazioni e facili analogie con un passato ormai remoto, come fecero i seguaci di una sciocca invarianza.

Non ci voleva però il cervello di Marx per vedere che, nel mondo capitalistico, il blocco sovietico rappre- sentava una sorta di limbo, in cui gli effetti della crisi si manifestavano in maniera distorta, invischiandosi in una formazione economica ibrida, né capitalista né extra capitalista (non certo socialista). Sarebbero esplosi nel 1989, con il crollo del muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell’URSS. Al tempo stesso, si dissolvevano quelle mitologie che, per settant’anni, avevano visto nel sistema sovietico un sogno o un incubo. Cadendo, in entrambi i casi, in una visione assolutamente fantastica.(5)

Certo, è il senno di poi (di cui son piene le fosse) che mi consente di avanzare queste osservazioni con le mie critiche ai testi di Leonardo e di Paolo. Le ritengo una doverosa premessa, grazie alla quale posso ora riconoscere il merito di quell’esperienza: il luddismo.

CONTRO IL LAVORO

Le temps payé ne reviene plus.
RAOUL VANEIGEM, La vie s’écoule, la vie s’enfuit.
(1974).

Ci volle un bel coraggio in quegli anni per resuscitare il capitano Ludd!
Un coraggio generato da quella critica radicale che metteva in discussione tutte le «verità» del mezzo secolo precedente, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, madre di tutte le moderne ideologie lavoriste … Nonostante Paul Lafargue (genero di Marx), nel 1887, avavesseeva indicato la via, col suo Diritto all’ozio (preziosa operetta che I luddisti milanesi diffusero, se ben ricordo).(6)

La critica, o meglio, le armi della critica, si erano forgiate in Russia nel 1917-1921, con la maknovcina e l’insurrezione di Kronštadt, in Germania nel 1919 con gli spartachisti, in Spagna nel 1936-1937 con gli Amici di Durruti, con gli insorti di Berlino nel 1953 e di Budapest nel 1956 … e con altre mille grandi e piccole ri- bellioni, sparse ai quattro angoli della Terra, non ultima, la nostra Italia.

La repressione, nelle sue forme democratiche fasciste o staliniste, contribuì a soffocare le ribellioni ma il colpo di grazia lo dette la ripresa del ciclo di accumulazione capitalistico. In quelle circostanze, la critica, abbandonate le armi, non si spinse a toccare il sacro tabù: il lavoro. Gli stessi conciliarismi, cui Leonardo e Paolo si richiamano, restarono legati alla sacralità del lavoro.(7)

Chi, ancora una volta, si spinse oltre, fu Bordiga. Nel 1952, con il Programma rivoluzionario immediato, proponeva un progetto di desviluppo, del tutto con- tra-corrente, in un periodo in cui l’Europa (e, di riflesso, buona parte del mondo) era alle prese con la ricostruzione post-bellica. Soprattutto, Bordiga rompeva con quella visione di progresso e sviluppo, compendiata nella triste frase di Lenin: il socialismo è il soviet più l’elettrificazione delle campagne.

In poche parole, Lenin e i suoi pur aspri critici consiliaristi restavano nella logica della gestione dello stato di cose presente, mentre Bordiga (con Marx ed Engels) ne sosteneva l’abolizione.

Ci sarebbe da colmare un’altra lacuna: il gruppo Krisis e Robert Kurz che, in tempi più recenti (anni Novanta), si sono espressi contro il lavoro.(8)
La storia, tutta italiana (nella nascita e nella morte), di Ludd è quindi di grande pregnanza. Il suo significato intimo sarebbe stato compreso solo in anni più recenti. Grazie all’azione tellurica della Vecchia Talpa, la crisi, cieca compagna del modo di produzione capitalistico.

Benché il messaggio fosse ancora forte e chiaro, il Movimento del Settantasette lo recepì in modo assolutamente distorto, come giustamente afferma Paolo (p. 106). Il rifiuto del lavoro fu più di forma che di sostanza, in ultima analisi, privilegiò l’arrangiamento individuale, favorendo, proprio nella fase cruciale delle ristrutturazioni e della deindustrializzazione (fine anni Settanta), le dimissioni concordate, attraverso laute buonuscite Alimentando demenziali teorie, come l’autovalorizzazione negriana o il piccolo è bello, anticamera del berlusconismo e del leghismo.(9) Ma questa è un’altra storia. Ritorniamo nella nostra valle di lacrime…

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NO FUTURE? MAGARI!

Avanzano alla solita vecchia maniera? E finiranno battuti alla solita vecchi maniera.
Wellington, Waterloo, 18 giugno 1815 (cit. p. 88).

Il futuro che ci attende non è certo radioso. Nella sua lunga digressione sugli anni Settanta, Paolo sciorina una lun- ga serie di citazioni, quasi tutte apprezzabili e tutte suggestive,(10) che, tuttavia, sfiorando mille ipotesi, finiscono per dissolversi nella notte hegeliana (in cui tutti i gatti sono bigi). Un limbo, in cui i contorni di classe perdono consi-stenza, eludendo il fatto che quei contorni non sono tracciati dai senza risorse (o proletari), bensì dai padroni (o borghesi), ovvero da coloro che vivono sfruttando il lavoro (la forza lavoro) di chi non ha altro da vendere per campare. E sono i padroni che creano la lotta di classe. I proletari ne farebbero volentieri a meno.

La compra-vendita della forza lavoro, per quanto truffaldina (come Marx spiegò), aveva in origine una sua pur discutibile giustificazione, poiché si manifestava nella produzione di merci con un valore d’uso, ovvero beni di consumo, destinati (in parte) alla produzione e riprodu- zione degli umani (è il mercato, bellezza!).

Ma ormai, da circa un ventennio, quella finalità è appassita, facendo fiorire la pura estorsione di plusvalore, denaro destinato in massima parte (se non esclusivamente) alla speculazione finanziaria: denaro che crea denaro. Il capitalismo diventa il serpente infernale che si mangia la coda, generando turbolenza ora più ora meno violente, con effetti dagli imprevedibili esiti catastrofici.

Senza attendere la catastrofe, si vede chiaramente che il lavoro è inessenziale, nella forma attualmente asasunta dal sistema economico capitalistico. Ed è altresì evidente che è assolutamente demenziale (e autolesionistico) chiedere lavoro, occupazione, investimenti produttivi … È comunque un lavoro mal pagato e svolto in condizioni sempre più precarie, e pericolose.

Il lavoro uccide! È la conferma di un sordido decline che smentisce clamorosamente decenni di consolatorie previsioni, condite con modesti miglioramenti (almeno in Occidente), il più delle volte pagati a caro prezzo. Certamente, viviamo una situazione quanto mai dinamica e mutevole, in cui richiamarsi a un passato ormai remoto porta in un vicolo cieco. Ciò non toglie che le esperienze del passato, vissute come fughe in avanti rispetto al loro tempo, segnano passaggi su cui oggi è bene ritornare, ma solo per correre poi più veloci.

Tra le «fughe in avanti», mi piace ricordare, oltre agli estemporanei luddisti italiani, i soviet russi del 1905 e del 1917-1921, le comunità anarchiche nell’Ucraina della maknovcina, i consigli operai in Germania nel 1918-1921, i Comitati della CNT in Catalogna e in Aragona nel 1936 e tanti altri esempi cui ho accennato, senza escludere con eccesso di severità libresca più recenti esperienze di democrazia diretta, come le comuni curde del Rojava.

Sotto vesti molto diverse (a volte contrastanti), il minimo comun denominatore è la formazione di co- munità di lotta, in cui i senza risorse non affidano il comunismo (il loro/nostro destino) a un futuro remoto e vago, ma lo vivono e lo fanno, giorno per giorno.

Altrimenti, sarà l’orrore senza fine, da cui solo una fine orrenda potrà liberarci .

DINO ERBA, MILANO, 21 giugno 2018.

 

PS. Il libro costa 25€. È tanto? Sicuro! Ma teniamo presente che bande di traffichini stanno spacciando a caro prezzo i vari testi presenti nella sua parte documentaria. Tagliare l’erba sotto i piedi ai trafficanti di rivoluzioni, è un merito!

NOTE

1. Riferimenti a caldo erano sul bordighismo li fece Barrot, nel suo articolo l’Ideologia ultra sinistra (1969), ri- portato a p. 366. Pubblicato l’anno seguente dalle Edizioni La Vecchia Talpa, di Napoli.

2. Nella bibliografia curata da Leonardo Lippolis (p. 62), è una grossa lacuna l’assenza di: GILLES DAUVÉ [Jean Barrot], Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, A cura di Fabrizio Bernardi, Dino Erba, Antonio Pagliarone, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010. I contributi presenti nel libro propongono uno scenario, sicuramente più ampio, e quindi assai più sintetico, cercando tuttavia di intrecciare i vari fili teorico-politici. Sforzandosi, altresì, di spiegare la genesi e l’evoluzione (nonché l’involuzione) della critica radicale nel corso del Novecento.

3. Parlo di critica dell’economia politica, non di generici studi economici in cui, per esempio, si distinguono i ragionieri di «Lotta Comunista».

4. Vedi: BENJAMIN LALBAT, Les bordiguistes sans Bordiga. Contribution à une histoire des héritiers de la,Gauche communiste italienne en France. Des racines de Mai 68 à l’explosion du PCI (1967-1982), Université d’Aix-Marseille, master 2 (dir.: Isabelle Renaudet), septembre 2014.

5. Vedi la mia critica al mito della potenza sovietica: DINO ERBA, La rivoluzione russa. Cent’anni di equivoci. Marx, i marxisti e i costruttori del socialismo, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017, p. 36.

6. Ricordo la più recente edizione: PAUL LAFARGUE, Il diritto all’ozio. La religione del capitale, A cura di Lanfranco Binni, Il Ponte Editore, Firenze, 2015. Binni tradusse l’edizione pubblicata nel 1977 dalle edizioni 10/16 di Milano. Ho evidenziato i meriti di Lafargue in: Il sole nonsorge più a Ovest. Significati e forme delle rivoluzioni al tempo della Grande Crisi. Riflettendo con Marx: razze, etnie, genere e l’immancabile sfruttamento operaio, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017, pp. 44 e ss.

7. Mi riferisco a: GRUPPO COMUNISTI INTERNAZIONALI OLANDESI (G.I.K.H), 1930: Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista, Introduzione di Paul Mattick, Jaca Book, Milano, 1974. Per una recente esposizione critica, vedi: VISCONTE GRISi, Pi nificazione dal basso e consigli operai. I principi fondamentali dei GIKH, «Collegamenti Wobbly», Supplemento, n. 1, gennaio-giugno 1995.

8. GRUPPO KRISIS, Manifesto contro il lavoro, Derive/Approdi, Roma, 2003. Ne parlo criticamente in: Il sole non sorge più a Ovest, op. cit., p. 131. La critica del lavoro ha ormai numerosi sostenitori, ricordo: ALBERTO TOGNOLA, Lavoro? No grazie! Ovvero, la vita è altrove, Edizioni La Baronata, Lugano, 2010. PHILIPPE GODARD, Contro il lavoro, Prefazione di Andrea Staid, Elèuthera, Milano, 2011.

9. Per una più ampia esposizione, vedi: VISCONTE GRISi, Il Movimento del 77 in Italia, sid (ma 2017).

10. Volendo scremare e arricchire il florilegio di autori citati da Paolo, toglierei il lamentoso cattocomunista Pasolini e l’impunito stalinista Aragon, e aggiungerei Guido Morselli, col suo Il comunista, pubblicato postumo da Adelphi, nel 1976: una svergognante denuncia dell’apologia del lavoro (e del partitone togliattiano). Scritto nel 1965, Il comunista fu rifiutato dall’Einaudi, per bocca di Italo Calvino, assistente al soglio di papa Giulio (per grazia di Mosca). Da buon gesuita, Calvino motivò il rifiuto, scrivendo a Morselli che: «dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all’interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo “inventare”». Chiosando infine: «Spero che Lei non s’arrabbi per il mio giudizio» (Carteggio – Suo Italo Calvino, 9 Ottobre ’65).